Tecnologia

Tecniche di visualizzazione 3D: dalla stereoscopia ai visori di realtà virtuale

Vecchi e nuovi sistemi sembrano molto distanti, ma sono in realtà legati fra loro. Un visore VR è in sostanza uno stereoscopio di Brewster (1849) con l’aggiunta di due schermi ad altissima definizione, una sensoristica di bordo, un SoC, un sistema operativo e due controller

Pubblicato il 16 Mag 2023

Giovanni Nardini

R&D Artificial Intelligence Lead Key to Business

3D

Riprodurre l’illusione della visualizzazione tridimensionale (3D). Tutti i sistemi escogitati fino ad oggi si basano sullo stesso semplice principio: veicolare separatamente immagini differenti verso ciascun occhio, le stesse immagini che otterrebbero se la scena visualizzata fosse reale, il resto è opera del cervello. A sua volta la percezione di tridimensionalità si basa sul fenomeno della parallasse: se si confrontano le due immagini ottenute, gli oggetti vicini all’osservatore mostreranno uno spostamento relativo maggiore rispetto a quelli lontani. Le tecnologie ideate nel corso della storia poggiano tutte su questo principio, andando di volta in volta migliorandosi, per offrire un’esperienza sempre più realistica.

visualizzazione 3D

Figura : Parallasse stereoscopica: oggetti vicini mostrano uno sfasamento maggiore rispetto ad oggetti lontani. Il cervello elabora questa informazione per definire la profondità.

L’antenato di tutti i sistemi 3D

Risale al 1832 l’invenzione del primo stereoscopio ad opera Charles Weathstone, con successivi prototipi migliorativi ad opera di David Brewster: molto simile a quello che potrebbe sembrare un normale binocolo, lo stereoscopio è un dispositivo ottico che monta due sistemi di lenti, uno per occhio, e un supporto sul quale inserire due fotografie o disegni stereografici. L’immagine di sinistra viene messa a fuoco dall’occhio sinistro mentre quella di destra dall’occhio destro. Se l’osservatore guarda attraverso lo stereoscopio percepirà la scena ritratta come se fosse realmente presente davanti a lui. Creare contenuti fotografici per lo stereoscopio è semplice: basta scattare due fotografie con due fotocamere affiancate e perfettamente allineate tra di loro, simulando la distanza interoculare. Lo stesso Weathstone, realizzò una versione cinematica dello stereoscopio (dal singolare nome di Stereofantascopio) che unì la tecnica stereoscopica con quella zootropica, permettendo la visualizzazione di immagini tridimensionali in movimento.

Negli anni successivi, fino alla prima metà del ‘900 vennero realizzate diverse versioni dello stesso dispositivo, senza modificarne il principio di base, ma affinando la tecnica cercando di abbattere i costi. Accanto a questi sistemi vennero progettati anche quelli per l’acquisizione facilitata di immagini adatte allo scopo.

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Figura : Uno dei primi stereoscopi ad opera di David Brewster, dotato di sistema a lenti.

Il cinema tridimensionale

Intorno alla metà del ‘900 si assiste al primo vero boom della visualizzazione stereoscopica nel contesto del cinema. La tecnologia con cui il 3D esordisce nelle sale cinematografiche è quella degli anaglifi.

Chiunque può dire di aver fatto esperienza di questa tecnica: si tratta dei famosi occhiali con lenti colorate (di solito rosse e blu, oppure rosse e verdi) con cui l’osservatore riesce a vedere immagini in rilievo. Il principio di funzionamento si basa sulla sottrazione del colore attraverso i filtri: se si guarda il mondo attraverso una lente rossa, tutti i colori tranne il rosso verranno esaltati; parimenti se si guarda attraverso una lente blu, oggetti di colore blu tenderanno a scomparire in favore di oggetti di altri colori che verranno rimarcati. In virtù di questa proprietà, l’immagine destinata all’occhio sinistro (lente rossa) viene processata con un filtro blu, mentre l’immagine destinata all’occhio destro (lente blu) viene processata con un filtro rosso.

In questo modo, entrambi gli occhi vedranno ciascuno la propria immagine senza alcuna interferenza. Il problema di questa tecnologia è la scarsissima resa dei colori e la discromia interoculare che produce il famoso effetto “iridescenza”, talvolta causa di fastidiosi mal di testa.

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Figura : Esempio di anaglifo (sinistra) e schema di funzionamento degli occhiali 3D.

Altri sistemi per il cinema 3D

Nel corso degli anni sono stati sviluppati altri sistemi, seppur sperimentali e di non facile implementazione nel mondo del cinema: uno si basa sull’effetto Pulfrich e l’altro sulla tecnologia ChromaDepth. L’effetto Pulfrich sfrutta una proprietà psicofisiologica del cervello secondo la quale applicando un filtro scuro di fronte ad un occhio, l’immagine viene recepita con un ritardo di qualche millisecondo. Sfruttando questo principio, vennero creati degli occhiali con una lente chiara ed una scura: osservando delle immagini in movimento, con una spiccata parallasse orizzontale, la mancata sincronizzazione tra gli occhi fa sì che ciascun occhio veda una prospettiva leggermente diversa, attivando la percezione della tridimensionalità. L’effetto può essere apprezzato utilizzando la lente di un occhiale da sole su un solo occhio e tenendo aperti entrambi gli occhi guardando il video

Demonstration of the Pulfrich Effect: NC State Fair

Demonstration of the Pulfrich Effect: NC State Fair

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Video: effetto Pulfrich

La tecnologia ChromaDepth, invece, si basa sul principio di diffrazione dei colori della luce: le lenti degli occhiali sono cosparse di piccolissimi prismi, che deviano la luce in base alla lunghezza d’onda. Questo effetto genera una finta parallasse che sarà maggiore o minore in base al colore trasmesso. L’effetto è notevole, ma il vincolo è che le immagini non possono chiaramente essere delle normali foto, quanto più delle illustrazioni appositamente create: il colore è legato alla codifica della profondità degli oggetti.

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Figura : tecnologia ChromaDepth. A sinistra un esempio di immagine 3D. A destra il principio di funzionamento degli occhiali 3D. Fonte: Jared E. Bendis.

In seguito al successo del cinema 3D, altre tecnologie sono state messe a punto per migliorare l’esperienza e superare i limiti delle precedenti. Infatti, vengono sviluppati i primi occhiali 3D con tecnologia ad otturazione attiva: in pratica le lenti sono costituite da veri e propri display a cristalli liquidi che diventano neri, impedendo il passaggio della luce, alternando tra occhio destro e occhio sinistro. Per tale motivo, è richiesta una sincronizzazione molto precisa tra otturazione degli occhiali e fotogrammi proiettati. I moderni sistemi fanno uso di bluetooth o sistemi di comunicazione a corto raggio per stabilire una connessione tra proiettore e/o schermo e gli occhiali stessi. Il vantaggio della tecnologia attiva LCD è che vengono superati tutti i problemi legati alla resa dei colori, lo svantaggio maggiore è la necessità di batterie, occhiali spesso pesanti, luminosità risultante dimezzata. Da qui la necessità di superare questi limiti con l’introduzione degli occhiali 3D polarizzati passivi.

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Figura : Principio di funzionamento degli occhiali 3D attivi ad otturazione LCD. Fonte: eizo.com

Il sistema a polarizzazione passivo

Nel sistema a polarizzazione passivo gli occhiali utilizzano la polarizzazione della luce per separare le immagini destinate all’occhio sinistro e a quello destro. La luce che emette lo schermo viene polarizzata in due direzioni differenti per ciascuna immagine, creando così due immagini sovrapposte sullo schermo. Ogni occhio vede solo l’immagine destinata a quell’occhio grazie alle lenti polarizzate degli occhiali. Sono stati sviluppati due tipi di polarizzazione: in una la luce viene polarizzata verticalmente e orizzontalmente in base all’occhio, in un’altra viene utilizzata la polarizzazione circolare. Nei cinema si solito, la proiezione avviene attraverso l’introduzione di un filtro polarizzante di fronte all’obiettivo del proiettore, che si muove in sincronia con i fotogrammi destinati ai due occhi. Nelle TV, lo stesso effetto viene ottenuto andando a polarizzare la luce a livello di pixel.

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Figura : Principio di funzionamento degli occhiali 3D passivi a polarizzazione lineare. Le lenti sono progettate per filtrare la luce polarizzata in direzioni diverse. Fonte: dpreview.com

Il sistema a filtro spettrale cromatico

Una delle ultime tecnologie, di grande interesse, utilizzata nel campo del cinema, è quella che si basa su filtro spettrale cromatico. Brevettata dalla Dolby, il principio di funzionamento è semplice: le lenti sono costituite da filtri dicroici passabanda, ovvero filtri che permettano il passaggio di solo 3 determinate frequenze d’onda nel campo del rosso, del blu e del verde. Queste lunghezze d’onda vengono volutamente sfasate tra l’occhio destro e l’occhio sinistro. In sostanza, una lente fa passare un’immagine RGB con frequenze diverse rispetto all’RGB dell’altro occhio. Il proiettore adibito a questa tecnologia utilizza una particolare ruota su cui sono montati i filtri con le varie frequenze per il rosso, il verde e il blu; andando a lavorare di sincronia sui fotogrammi destinati ai due occhi.

L’olografia

Se c’è una tecnica di visualizzazione tridimensionale che possa essere considerata la più analogica di qualsiasi altra tipologia, questa si chiama olografia. Con l’avvento del laser, fonte di luce coerente e monocromatica, le applicazioni pratiche dell’olografia si svilupparono in pochissimo tempo. Cos’è esattamente un ologramma? È un’immagine tridimensionale impressa su una lastra fotografica che appare come se fosse sospesa nel vuoto, e può essere vista da diverse angolazioni proprio come se fosse un oggetto reale, senza l’utilizzo di alcun tipo di occhiale o supporto tridimensionale. L’olografia è dunque la tecnica con la quale produrre gli ologrammi e consiste in due varianti differenti: quella per trasmissione e quella per riflessione.

Nella prima, un fascio di luce laser coerente viene sdoppiato utilizzando uno specchio semi-riflettente. Uno dei due fasci risultanti viene diretto, attraverso un sistema di specchi, direttamente sulla lastra fotografica (fascio di riferimento), l’altro viene espanso e diretto verso l’oggetto da riprendere, collocato davanti alla lastra. In questo modo la lastra viene colpita dal fascio di riferimento e dalla luce laser riflessa dall’oggetto: l’interferenza prodotta delle due fonti viene registrata sulla lastra e contiene tutte le informazioni riguardanti fase e ampiezza del campo luminoso, e con sé porta anche le informazioni 3D. Dopo l’esposizione e il procedimento di sviluppo fotografico, se si dirige un fascio laser sulla lastra con la stessa angolazione del fascio di riferimento, l’oggetto si materializza dietro la lastra, esattamente come se l’oggetto fosse visto, punto per punto, attraverso una finestra. Nella seconda tipologia, a trasmissione, l’unica differenza è che viene utilizzato un solo fascio laser e l’oggetto viene posto dietro la lastra.

Figura : schema di registrazione di un ologramma

Figura : differenti angolazioni di un ologramma. Fonte: litiholo.com

Gli ologrammi sono ad oggi la ricostruzione analogica più fedele di un qualsiasi oggetto reale: al loro interno sono registrate tutte le informazioni di fase e ampiezza del campo luminoso prodotto dall’oggetto. Questa peculiarità determina un’altra interessante proprietà: ciascun punto della lastra contiene le informazioni dell’intero oggetto ripreso, visto da una specifica angolazione; non vi è limite alle possibili angolazioni con le quali visualizzare l’oggetto. Tuttavia, i limiti dell’olografia sono abbastanza chiari: essa si pone come una tecnica fotografica e statica. Non è possibile ad oggi sostituire la lastra fotografica con un display in grado di riprodurre dinamicamente le frange di interferenza tipiche dell’olografia, abilitando la visualizzazione di contenuti multimediali. Questo principalmente è dovuto a due motivazioni: di carattere tecnologico (manca un vero e proprio supporto in grado di simulare la lastra) e di carattere computazionale (le informazioni da elaborare per riprodurre un ologramma in movimento sono tantissime: è come se si dovesse fare il rendering di un oggetto da innumerevoli punti di vista per ogni frazione di secondo).

In realtà, negli ultimi anni, molti progressi sono stati fatti per quanto riguarda la tecnologia dei cosiddetti Diffractive Backlight display. Essi, attraverso l’utilizzo di nanotecnologie incorporate con normali display LCD, simulano il comportamento degli ologrammi direzionando la luce con intensità e angolazioni diverse, pixel per pixel. Il risultato è che l’osservatore può vedere l’oggetto ripreso da angolazioni differenti inclinando il display a proprio piacimento. Il limite ad oggi rimane la risoluzione di questi sistemi e la presenza di discontinuità nelle immagini che rendono l’esperienza ancora poco fluida.

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Figura : esempio di display basato sulla tecnologia LightField Diffractive Backlight. Fonte: leiainc.com

Altre tipologie di display

Per tentare di rimuovere la dipendenza dagli occhiali 3D, molte tecnologie sono state sviluppate durante la seconda metà del secolo scorso e i primi anni 2000. Quelle di maggior interesse sono i display autostereoscopici in due varianti diverse: quelli lenticolari e quelli basati sulla barriera di parallasse. I primi ereditano il principio di funzionamento dalla fotografia lenticolare: un esempio celebre sono alcune figurine di calciatori che si muovono in base all’inclinazione della carta. In questo caso ai display viene sovrapposto uno strato plastico caratterizzato da un insieme di lenti rettilinee molto sottili, disposte verticalmente rispetto all’osservatore.

Lo schermo riproduce le immagini per l’occhio destro e sinistro in modalità interlacciata: vengono suddivise in tante piccole “fette” e accostate in modo alternato. Le lenti fanno il resto del lavoro, ovvero convogliano la luce proveniente dai pixel associati all’immagine destra verso l’occhio destro dell’osservatore, viceversa direzionano la luce dei pixel associati all’immagine sinistra verso l’occhio sinistro.

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Figura : principio di funzionamento dei display lenticolari.

Nei display a barriera di parallasse, che vedono un esempio famoso nel modello 3DS della Nintendo, la tecnologia è leggermente differente. Il supporto lenticolare viene sostituito da un ulteriore schermo LCD posizionato di fronte a quello RGB, che forma un insieme di linee verticali nere, con spessore e sfasamento adattabile dall’osservatore, in grado di oscurare la luce in determinate direzioni. L’elaborazione delle coppie di immagini sinistra e destra è sempre di tipo interlacciato, per cui i segmenti dell’immagine di destra vengono oscurati all’occhio sinistro e viceversa.

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Figura : sistema di visualizzazione 3D con barriera di parallasse. Tipico del modello 3DS della Nintendo

Nonostante la rimozione dell’utilizzo degli occhiali 3D, questi sistemi presentano delle limitazioni notevoli: si adattano a un unico osservatore, il quale deve porsi centralmente rispetto al display, presentano una degradazione della risoluzione dovuta al fatto che in un singolo display vengono mostrate contemporaneamente le due immagini destinate ai due occhi.

Ritorno al passato con i visori VR in 3D

Nonostante possa sembrare strano, i tentativi sempre più sofisticati di eliminare le dipendenze dagli occhiali 3D e rendere l’esperienza 3D il più possibile fluida e ad alta definizione, sono stati via via sorpassati dall’esigenza di immergere l’osservatore nell’ambiente virtuale e farlo interagire con esso. Perché si potrebbe parlare di un ritorno al passato? Perché l’unico sistema efficacie per tale scopo è il visore vr, e il visore VR è in sostanza uno stereoscopio di Brewster (1849) con l’aggiunta di due schermi ad altissima definizione, una sensoristica di bordo, un SoC, un sistema operativo e due controller.

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