Un cretino molto veloce: stiamo ovviamente parlando del computer, la macchina di Von Neumann inventata più di un secolo fa. Sappiamo ormai praticamente tutti che tale macchina sa fare cose molto semplici e sorprendentemente elementari ma ad una velocità stravolgente per qualunque aspettativa umana. Eppure percepiamo un barlume di brillantezza mentale spesso confuso con la stessa intelligenza umana. Una percezione sbagliata. Ma fondamentale per affrontare il tema dell’intelligenza artificiale e del “fattore mancante” al raggiungimento della coscienza.
Lo sappiamo: non esiste alcuna intelligenza umana in una calcolatrice. Anzi, neanche nelle macchine che giocano a scacchi, o alla Dama o al gioco del Go o del Poker, che possono essere giocati da un computer in modo così soddisfacentemente “umano”, da poter venire contrapposto a un giocatore in un’altra stanza tale da non riuscire a definire se si sta giocando contro una macchina o contro una persona in carne e ossa (e quindi passare egregiamente un test di Turing, così brillantemente superato).
Va sottolineato anche qui: non esiste alcun meccanismo di “intelligenza” algoritmicamente definita, ce ne sono diverse e tutte ricondotte a comportamenti sociali, o al risparmio di risorse come il tempo, o il denaro, o l’energia. Pensiamo a quando ordiniamo un mazzo di carte: è il “procedimento” che è intelligente, perché ci fa ordinare le carte nel modo più veloce possibile rispetto ad un altro, dove un metodo “più veloce” o “meno costoso” o “meno faticoso” può essere un parametro di intelligenza.
Vincere e scacchi: questione di intelligenza?
Ma come sappiamo bene, non lo è. A meno che non vogliamo considerare più intelligente di noi la nostra calcolatrice perché “sa” estrarre le radici quadrate, o “calcolare” i logaritmi più velocemente e più esattamente di noi. Per giocare a scacchi ad esempio occorre conoscere le mosse dei pezzi, le regole e le strategie, poi i calcoli vanno eseguiti durante la partita. Il gioco a scacchi è sempre stato ritenuto l’apice di una capacità intelligente del tutto umana: fin quando, nel secolo scorso, una macchina non ha vinto su un essere umano a questo gioco.
Abbiamo invece imparato – con lo specializzazione delle strategie grazie al contributo della velocità apportato dall’informatica – che comportamenti meccanici e ripetitivi per avanzare in un gioco, se svolti molto velocemente, sono addirittura più efficaci di comportamenti intelligenti complessi.
Nell’esempio fatto in figura, il labirinto viene attraversato in due modi differenti: il primo “ottimizzato”, attraverso la selezione di un percorso “più breve” tra l’ingresso e l’uscita, come si vede è elegante e breve, va da un punto di ingresso selezionando un percorso sicuramente efficace ed efficiente ed esce velocemente.
Nell’altro esempio, detto dell’algoritmo ”cieco”, si ipotizza un automa cieco che percorre un itinerario molto più oneroso in termini di tempo e di lunghezza, ma comunque raggiunge l’uscita con una regola semplicissima: battere sempre il bastone cercando il muro alla propria destra e seguire il muro. Il primo metodo è senz’altro più intelligente in termini di risparmio di strada percorsa, ma è fortemente dipendente dalle condizioni del labirinto, occorre osservare il labirinto nel suo insieme, provare diversi percorsi, eleggerne il migliore e battezzarlo “ottimizzato” cioè preferibile.
Il secondo è un metodo più “elementare”, non tiene conto delle condizioni iniziali eppure, poiché più semplice e meccanico, può essere applicato repentinamente e ripetitivamente in modo velocissimo tanto da “battere” quello più intelligente sul tempo ogni volta e per qualunque complessità del labirinto. E’ quello che accade all’interno di una calcolatrice: niente dividendo, divisore, quoziente, resto e quoto: solo centinaia o milioni di sottrazioni ciascuna fatta in un milionesimo di secondo. Il risultato? Una velocità strabiliante. Per gli Scacchi è la stessa cosa: nessuna intelligenza strategica: solo milioni di tentativi fatti in milionesimi di secondo. Il risultato? Una vittoria schiacciante.
La “saggia” intelligenza gravitazionale celeste
Prendiamo il tema degli sconvolgimenti climatici con le loro variazioni e le catastrofi in corso: spesso si dice che il nostro pianeta “reagisca” in modo cosciente “ribellandosi”. Noi tutti sappiamo che non c’è intenzionalità ma una serie di concause, ma ereditiamo dall’antica usanza mitologica l’attribuzione di una pari intenzionalità a quella umana.
E per molti millenni abbiamo fatto così anche per lo straripamento stagionale del Nilo nell’Antico Egitto, o per le aurore boreali, o per le eclissi di luna. Quest’ultima, benché un effetto secondario di meccanismi molto elementari di meccanica celeste, si è sempre ciclicamente ripetuta con lo stesso algoritmo come il cieco del labirinto visto precedentemente secondo un calendario cosmico estremamente preciso. Grazie alle proiezioni e ai calcoli possibili oggi, possiamo virtualmente tornare indietro nel tempo e visualizzare quando e dove le eclissi furono visibili con estrema precisione.
Eppure se consideriamo le reazioni umane a queste meccaniche celesti, come durante la ”battaglia dell’Eclissi” di Halys, nel 585 a.C. che terminò bruscamente a causa di un’eclissi solare totale, percepita come un presagio mandato dagli dei affinché la lotta terminasse; oppure il pessimo significato di presagio attribuito alla sorte del re Cinese legittimato dal volere celeste con tamburi e arcieri reali che dovevano essere pronti per spaventare e combattere il “drago che divorava il Sole” (anche se i cinesi erano in grado di fare previsioni già 2mila anni prima di Cristo e già più di 4mila anni fa in previsione di un’eclissi); o l’incisione cuneiforme sulla tavoletta ritrovata nel 1948 a Ugarit, nell’attuale Siria, incisa in scrittura cuneiforme, riporta la descrizione dell’oscuramento e la comparsa di Marte in pieno giorno datato dagli studiosi il 5 marzo 1223 avanti Cristo, e le eclissi hanno avuto il potere di ribaltare ruoli sotto i regni di Esarhaddon e poi di Assurbanipal (dal 681 al 631 a.C. circa); Serse fu spaventato da un’eclissi di Sole, poco prima di attaccare i Greci alle Termopili nel 480 avanti Cristo; Omero ne parla nell’Odissea: il ritorno a Itaca di Ulisse è preceduto proprio dall’oscuramento del Sole.
Stiamo parlando soltanto di un fenomeno meccanico come l’eclissi di luna, eppure questi fenomeni elementari, nella loro manifestazione grandiosa e risultante, hanno per molto tempo proiettato per l’Uomo l’illusione di una “intenzionalità” emergente.
L’illusione dell’intelligenza
Comportamenti assolutamente semplici come una luna attorno al suo pianeta, o un atomo con il suo elettrone, visti dai loro effetti finali, quali possono essere i fenomeni delle maree o delle eclissi danno origine a comportamenti complessi come l’evoluzione di un tornado o una tempesta di sabbia, o il comportamento delle api in un alveare, il volo di uno stormo migratorio, il propagarsi di un fungo o il comportamento di un virus.
Per mantenere intatto il senso tecnico affermiamo che interi comportamenti macroscopici, ritenuti intenzionali, sono stati spesso attribuiti a fenomeni che invece possono essere generati da miriadi di tanti semplici meccanismi aggregati in grandi quantità complesse e resi velocissimi come singoli granelli di una tempesta di sabbia o singole semplici onde gravitazionali che determinano l’innalzamento di una marea.
Osservata da questo punto di vista, come l’hanno descritta scienziati, evoluzionisti o zoologi l’intelligenza sarebbe nient’altro che un una manifestazione illusoria di un aggregato di semplici piccoli fenomeni elementari. Le stesse “reti di neuroni” complesse possono essere viste come aggregati di neuroni interconnessi tra loro a formare il cervello umano, ma che studiati di nuovo nelle loro semplici componenti elementari, mostrano l’assenza di intenzionalità intelligente e rivelano una meccanica costituita soltanto dell’elettrochimica dello stimolo-risposta. Si usa distinguere allora tra “mente” e “cervello” , nel senso che l’elementare aggregazione del cervello dà luogo non alla “somma” delle singole parti, ma a molto di più: alla “mente”, e alla “coscienza”.
Questa consapevolezza, questa l’intenzionalità della mente, questa intelligenza cosciente, non solo pensa, ma “desidera” farlo: se volessi allora trasferire questa mentalità in una macchina per giocare a scacchi, essa dovrebbe non solo conoscere il gioco, ma capire anche perché sta conducendo una sfida, perché vuole vincere e quali zone della scacchiera e quali tecniche preferirà, se essere aggressiva o difensiva.
Il pensiero involontario
Se pensate che la vostra rispettabilissima intelligenza sia frutto di un atto cosciente della vostra specifica capacità di essere consapevoli, provate la seguente esperienza molto bella e incisiva che è la stessa che viene fatta fare in tutti i corsi di training autogeno o di meditazione. Consiste nel seguente semplicissimo esperimento (si può fare a casa): chiudete gli occhi, provate a sgomberare per un attimo la mente da tutti i pensieri, rilassatevi e respirate profondamente, provate a non pensare più e concentratevi sul nulla più assoluto che riuscite a immaginare. Vi accorgerete così che semplicemente non è possibile “non pensare a nulla”.
E il motivo è che pensare non è un gesto volontario. Per ora evitiamo di scendere nello specifico del pensare “intelligentemente”. Limitiamoci al pensiero più banale, che non riusciamo a non fare: non appena proviamo a non pensare a nulla, ecco materializzarsi un nuovo pensiero, foss’anche soltanto l’immagine di noi che stiamo provando a fare lo sforzo di non pensare a nulla e che continuiamo a pensare “non devo pensare” e se non riusciamo a non voler pensare, vuol dire che il pensiero non è un atto di volontà, ma un flusso involontario di considerazione, originato “altrove”.
Neuroni umani e comportamento di sciame
Il nostro pensare cosciente è dunque originato dal comportamento di “sciame” dei nostri neuroni che si viene a costruire, così come le api costruiscono cooperativamente i loro alveari, o le termiti i loro termitai, o le formiche le loro tane, con risultati finali tanto evoluti da apparire inquietanti, ma svolgendo ciascuna un compito semplice e minimo, senza quasi coscienza dell’obiettivo comune, che viene realizzato attraverso un comportamento “risultante”.
Anche i nostri neuroni, per quanto generatori di pensieri complessi e di opere sublimi, visti operare da un punto di vista macroscopico, obbediscono ciascuno alle leggi biochimiche asservite alla semplice fisica della natura, che tende ad essere molto parsimoniosa in termini energetici, e non consumeranno energia e risorse per un compito per cui non c’è ritorno.
Sono strutturati per consumare meno zucchero e meno ossigeno possibile e soprattutto per rilasciare sostanze “motivatrici” come le endorfine. Ma per motivare a reiterare una azione vincente, le stesse endorfine non possono essere rilasciate all’infinito in quanto necessitano di un periodo per essere riaccumulate per il rilascio successivo – è uno dei motivi per cui la “felicità”, la “sazietà”, il piacere in generale – durano “poco” e vengono anch’esse “apprese” dando luogo ad una sorta di assuefazione che ha lo scopo di renderci insoddisfatti e di spostarci ancora un po’ più “avanti” nel percorso evolutivo.
Intelligenza, cioè sopravvivenza
Quindi il nostro comportamento “emergente”, la nostra cosiddetta intelligenza, tenderà a “sintonizzarsi” su un livello di equilibrio, e se non accade niente che stravolga lo status-quo, se non c’è nulla che ci pone in una situazione di pericolo o che solo ci motiva a fare diversamente, in sostanza in assenza di buone motivazioni al cambiamento del comportamento emergente, il meccanismo intelligente continuerà a manifestarsi replicandosi all’infinito.
Ciò accade infatti puntualmente nel regno animale, in particolare per alcune specie. Osserviamo questo andamento in tutte quelle isole dove non ci sono stati predatori per millenni prima della comparsa dell’Uomo: se non c’è nessuno che cerca di predarti socialmente (se sei umano) o fisicamente (se appartieni ad altre specie), il tasso di reiterazione di una certa “usanza” o “comportamento” per quanto intelligente possa essere rimarrà stabile con un tasso di innovazione molto basso.
Finché posso pescare con un gancio e qualche amo, non ho alcun motivo di inventare nuovi metodi. Finché posso sfuggire ad un animale predatore più in alto nella catena alimentare semplicemente correndo più forte, non avrò alcuna necessità di mutare il colore della mia pelle. Per i nostri neuroni cerebrali, valgono le stesse regole delle cellule cromatiche della pelle dei polipi o dei camaleonti: se non ho una necessità di sopravvivere, non ho bisogno di idee “migliori” rispetto ad altre.
Intelligenze “superumane”
Poiché, in assenza di predatori, per motivare un essere vivente ad elaborare strategie “intelligenti” occorrono motivazioni come la sopravvivenza, dobbiamo fornire ad una intelligenza artificiale una intenzione, una motivazione, alla scelta. E la scelta per eccellenza di un essere artificiale è quella della sopravvivenza, prima ancora della concezione di un qualsiasi altro desiderio, e per avere una necessità impellente non c’è niente di meglio di un corpo!
L’intelligenza animale e quella umana ne è parte, è connessa direttamente al corpo, è parte di esso e nasce e muore con esso. Se vogliamo replicare una intelligenza che ottimizzi al massimo i propri sforzi, dobbiamo darle dei vincoli entro cui muoversi e risolvere i problemi e, come accade per noi, dobbiamo conferirle delle risorse limitate, energia limitata, e tempo limitato.
Ciò significa che dobbiamo darle un inizio, un tempo massimo di svolgimento, ed una certezza: la fine. La necessità di procurarsi dell’energia per il proprio sostentamento, che sia essa cibo o qualunque altra fonte, e di competere nell’ambiente con altre intelligenze artificiali per l’autoconservazione e il procacciamento di cibo per rimandare il più possibile la propria fine.
E non basta, occorre che il bilancio energetico di questa operazione di autosostentamento abbia un ritorno positivo, che possa acquisire molta più energia mangiando rispetto all’energia spesa cacciando, cercando di compiere sforzi sempre minori, di abbassamento del consumo energetico. Una intelligenza che non lavori consapevolmente rispetto ai propri limiti fisici, potrà certamente librarsi sopra le umane necessità ma se ne distaccherebbe completamente: non avendo alcuna necessità di conservarsi e di preservare se stessa e il corpo che la contiene, sarebbe libera anche da vincoli umani.
Certo, una intelligenza artificiale libera da tali vincoli, avrebbe sicuramente obbiettivi sublimi e superiori, ma sarebbero conseguiti con distacco rispetto alle umane necessità, e alle umane povertà, come l’istinto di aggregazione sociale. Una intelligenza che lavori senza necessità di cooperare con altre intelligenze, che non abbia alcun bisogno di garantirsi meglio la sopravvivenza socializzando con altre intelligenze.
I “pensieri” che ne scaturirebbero sarebbero comunque illimitati perché privati di qualunque limite di pudore, di convenienza sociale, ma anche di empatia e di compassione per le debolezze umane, necessarie a rendere l’umanità tale. È il “corpo” fisico, biologico, che reclama con i suoi bisogni di mettere in atto istinti ineludibili e primari: respirare, mangiare, dormire, sopravvivere, etc. che dota una intelligenza di autoprotezione e nella sopravvivenza, e dell’empatia con la condizione umana, sulla conservazione e riproduzione di tutte le specie, della necessità di ricerca di sempre più cibo, ozio, sicurezza, piacere, amore, conservazione e perpetrazione.
Il prezzo della destrutturazione
In questo periodo di Rinascimento tecnologico, chiamiamo il tempo in cui viviamo l’Era dell’Informazione per via del “petrolio” che la caratterizza, appunto le informazioni. Ma dobbiamo ancora capire bene come spendere le nostre energie nel tentativo di comprendere come queste informazioni attivano le nostre singole sinapsi in modo da generare un comportamento tale da poter essere ritenuto, dall’esterno e grossolanamente, “intelligente”.
Ciò che il metodo scientifico ci ha insegnato finora è stato smontare quello di cui volevamo comprendere il funzionamento, ma lo smontaggio, la destrutturazione, l’atomizzazione dei singoli comportamenti fino alla comprensione del singolo atomo, se nei secoli ha portato a scoperte straordinarie, a straordinari gradi di comprensione, ha richiesto un prezzo da pagare connesso strettamente con questo stesso metodo.
Il problema di destrutturare la natura per comprenderne il funzionamento, se da una parte conduce certamente a conoscerne le parti più intime e microscopiche fino alle particelle fondamentali e i loro fondamentali principi di funzionamento, alle forze fondamentali che governano lo svolgimento del compito, ne fa perdere completamente la visione d’insieme. A quel punto non se ne comprende davvero il contributo generale finché non torniamo a vederne di nuovo il funzionamento rimettendole insieme in tutti i loro miliardi di componenti e vederne di nuovo la resa in movimento.
Per quanto riguarda la vita e del modo con cui si è venuta a creare, qualunque biologo o esobiologo sa che – sebbene ci siano moltissime cose che non conosciamo – non esiste però più un mistero profondo che avvolge la manifestazione della vita, perché abbiamo potuto decodificare il modo in cui la semplicità delle singole molecole e dei singoli atomi chimici dà origine alla complessità che definiamo “vita”: siamo cioè in grado di intravedere le concause, e anche se non sappiamo esattamente come si sia potuta originare la vita, sappiamo cosa sia un disco di Petri e come si usa, e come su un certo pianeta si siano potute creare le condizioni per mettere in modo il “meccanismo” della vita così come la conosciamo, ri-conosciamo ed intendiamo oggi.
La vita, insomma, smontata ed osservata nelle sue componenti più elementari, non restituisce un valore oggettivo su come possa essere rimontata e ricreata: abbiamo osservato la stessa cosa con la materia: se smontiamo la materia per capire come funzionano le molecole e queste per capire come siano composte di atomi e questi ultimi per vederne i singoli leptoni e quark, ecco che a quel punto davanti a questi oggetti minimi ci rendiamo conto di aver perduto la visione d’insieme del fenomeno che rappresentavano: queste particelle elementari, che si comportano con principi subatomici, non ci aiutano a capire come la semplicità di questi meccanismi possa determinare un fenomeno macroscopico come la nostra esistenza o quella degli altri animali e per tornare ad osservarne il fenomeno emergente e complessivo non ci resta che rimontare il tutto e tornare alla sua manifestazione intera.
Sciami di storni: c’è gerarchia?
Gira su internet un suggestivo filmato di un contadino alle prese con la forma di uno stormo di uccelli. Lo stormo a volte somiglia a una balena, a volte a una ameba, a volte a un delfino, a volte a un polipo… La regola che lo fa muovere in quel modo è semplicissima e consiste per ciascun uccello in movimenti meccanici e sempre uguali: ma noi ne intravvediamo una parvenza di “intelligenza” strategica generale, una “intenzione” di scelta della “forma”.
Questo perché il “nostro” stormo di neuroni, a sua volta, si muove con semplici regole nel micro che mimano nel macroscopico un comportamento che cerca una “forma”, una “figura” e all’interno di essa un qualche antropomorfismo: una testa, un’ala, un occhio, una bocca, una coda, e contemporaneamente l’allerta di un animale più complesso, un predatore, un pericolo. Accade anche osservando una aurora boreale, o la formazione delle stalattiti, o il mutare delle nubi nel cielo: improvvisamente veniamo spinti da un istinto a “motivare” le forme: un volto, un animale, una scultura futurista.
Ma non c’è nessuna intenzione che detta la gerarchia di quella forma.
Gli etologi hanno definito quel comportamento simile a quello dei banchi di pesci di nuovo come risposta rispetto a potenti stimoli esterni (cibo, luce, predatori) capaci di farli confluire tutti insieme in quella direzione.
Un predatore sarà “confuso” da un banco o da un branco o da uno stormo compatto, perché le movenze direzionali non sono prevedibili nel complesso, e sono disorientanti: in caso di attacco salvano statisticamente la maggior parte della “colonia”. Eppure tendiamo a definire questo comportamento “astuto”, come se scaturisse da una intenzione unica ed una orchestrazione gerarchica.
L’informatica della formica
Per una formica (ma anche per noi) non esistono procedimenti efficienti per trovare il percorso più breve possibile in un tragitto toccando tutti i punti di interesse di un territorio (conosciuto come l’algoritmo del “percorso del commesso viaggiatore”) e l’unico metodo di risoluzione è rappresentato dal tentare tutti i possibili cammini per scegliere alla fine quello migliore: sappiamo che il numero di tutti i percorsi possibili è fattoriale (per tre punti 6 percorsi possibili, per 4 punti 24, ma già per 9 punti sono 362.880 percorsi) e la complessità dell’operazione si rende impraticabile per grafi di dimensioni comuni.
Dovendo percorrere una rete di mille tappe, molto più comune di quanto si possa pensare, ci troveremmo già in seri problemi computazionali. Ma “le formiche lo sanno fare”, e l’intelligenza emergente nel loro comportamento torna a manifestarsi fortemente nel cercare di trovare il percorso più breve tra diverse posizioni contenenti cibo e le diverse tappe.
Ci si chiede per un istante se esse non abbiano scoperto l’informatica già da milioni di anni prima di noi. Invece è sufficiente per ciascuna formica muoversi “un po’” casualmente, spruzzare il suo odore che pian piano svanisce, e annusare odori di altre formiche. Tutto qui. Un meccanismo semplice e disarmante che non serve a nulla e porterebbe a morte certa una unica formica, ma moltiplicato per centinaia o migliaia di individui porta invece a sopravvivenza costante e certa anche in ambienti ostili, dove ci sono formichieri, predatori, o tane che vengono nascoste o distrutte.
- la formica tenta un percorso e spruzzando il suo feromone
- tutte le formiche percorrono un certo numero di piste feromonali, depositandoci sopra ognuna una quantità di feromone
- di conseguenza ogni bordo del percorso più scelto è più frequentemente rinfrescato di feromone rispetto agli altri
- l’evaporazione rimuove le soluzioni peggiori
Le basi per una “coscienza artificiale”
Scoprire che l’intelligenza sia una manifestazione di “sciame” (emergente, di gruppo) e possa non esistere come concetto assoluto – ma neanche come manifestazione assoluta residente in una determinata “persona” di un gruppo – può essere destabilizzante rispetto a come siamo portati a percepirci e per il nostro amor proprio. Tuttavia abbiamo tentato, con questa breve analisi, di definire una forma di intelligenza, quella “emergente da gruppi” di individui e da moltitudini di individui semplici o addirittura meccanici (virus, pesci, rondini, neuroni) nel tentativo di riuscire a codificarne una artificiale.
Abbiamo cercato di ricondurre la definizione di intelligenza ad una manifestazione di “sciame” e abbiamo provato lo stupore dell’osservazione di manifestazioni apparentemente intenzionali e molto intelligenti emergenti da comportamenti elementari di stormi, di banchi, di sciami.
Abbiamo inoltre condotto due esperimenti mentali: nel primo, abbiamo provato a sperimentare che l’essere cosciente insieme con l’intelligenza sono fenomeni emergenti e, quel che è ancor più affascinante, mostrano una apparente intenzionalità solamente se visti nella loro complessa numerosità.
Nel secondo abbiamo posto le basi per la costruzione di una coscienza artificiale: per realizzare l’intelligenza che vorremmo sintetizzare, nel tentativo di conferirle “la scintilla” della potente capacità umana di ragionamento, talento, irriducibile voglia di esprimersi, di migliorare e di evolversi, dovremmo innanzitutto infondere all’interno di essa l’estrema consapevolezza della propria estrema caducità al pari della condizione umana.