Con il termine “transumanesimo” indichiamo quella corrente culturale, particolarmente diffusa nel territorio della Silicon Valley, che auspica il passaggio dall’Homo sapiens al c.d. postumano. Alla base del movimento transumanista c’è la convinzione che il progresso tecnologico e scientifico rappresentino il meccanismo per il potenziamento delle capacità fisiche e cognitive dell’essere umano, il quale diverrebbe capace di superare i propri attuali limiti, sino a vincere persino l’invecchiamento e la stessa morte.
Indice degli argomenti:
Il transumanesimo, cos’è, la storia
Si tratta, quindi, di un nuovo step evolutivo, nell’ambito del quale l’essere umano non è più un semplice soggetto passivo dell’evoluzione stessa, ma è artefice di quest’ultima e ne veicola la direzione, intervenendo sul progresso tecnologico.
Sebbene la parola transumanesimo compaia per la prima volta negli anni Cinquanta, la nascita di questa ideologia, così come oggi la intendiamo, si è fatta strada a partire dagli anni ‘80, anche grazie al pensiero di uno dei suoi “padri fondatori”, Max More, che ha definito il transumanesimo come quella classe di filosofie che, tramite la tecnologia e la scienza, ricercano la continuazione e l’accelerazione dell’evoluzione di “una vita intelligente” al di là della sua forma umana e delle sue limitazioni.
L’ambizione finale del transumanesimo, quindi, è la realizzazione di un upgrade dell’Homo sapiens, nonché la progressiva liberazione dai limiti determinati dalla corporeità. Per realizzare questo scopo, è necessario il compimento di un processo di ibridizzazione delle caratteristiche e componenti biologiche umane con le macchine grazie alla tecnologia e alle nuove scienze come la biorobotica, la bioinformatica, la nanotecnologia e la neurofarmacologia.
Questo processo di ibridizzazione si può concretizzare nell’installazione di componenti artificiali e tecnologiche nel corpo biologico dell’essere umano al fine di potenziarlo sino a poter giungere, poi, alla completa sostituzione del corpo biologico con uno tecnologico. A sua volta, l’abbandono del corpo biologico potrebbe essere realizzabile attraverso il c.d. ‘mind uploading’, ossia attraverso lo scaricamento dei dati e delle informazioni della mente umana che finirebbero, poi, “caricati” su un supporto robotico. Si ipotizza, persino, di poter arrivare a caricare il cervello umano direttamente nel cloud.
Le organizzazioni del transumanesimo: la Alcor Life Extension Foundation e il Cryonics Institute
Tra le organizzazioni più importanti che, ad oggi, stanno lavorando per la realizzazione dell’upgrade dell’Homo sapiens, ricordiamo la Alcor Life Extension Foundation e il Cryonics Institute che concentrano la propria ricerca sulla c.d. criogenesi, ovvero quella pratica che prevede il congelamento del corpo di una persona dopo la sua morte legale, con l’obiettivo di preservarlo a temperature molto basse (tipicamente sotto lo zero) nell’intento di poterlo rianimare in futuro grazie ai progressi della tecnologia medica.
La criogenesi, per decenni relegata all’immaginario della fantascienza, sta guadagnando una nuova credibilità scientifica nel dibattito sul futuro umano. Oggi, grazie ai progressi della biotecnologia e della medicina rigenerativa, il concetto di conservare un corpo umano in uno stato di ibernazione controllata non è più del tutto irrealistico. Anche se siamo ancora lontani dal “risveglio” di un essere umano crioconservato, la ricerca su modelli animali e tessuti cellulari umani sta facendo passi avanti significativi.
Ma non si parla solo di “ibernazione dopo la morte”. Alcuni laboratori stanno lavorando a protocolli di ibernazione temporanea e reversibile per pazienti in situazioni critiche, come traumi gravi o arresti cardiaci, rallentando le funzioni vitali per guadagnare tempo chirurgico prezioso. Questa applicazione, già testata in contesti sperimentali, potrebbe diventare nei prossimi anni una risorsa clinica concreta. All’interno del paradigma transumanista, la criogenesi si configura come un ponte temporale: una sospensione del tempo biologico in attesa di cure future, di tecnologie ancora da inventare, ma già intraviste. Non è una fuga dalla morte, ma una scommessa sulla scienza e sulla possibilità che l’evoluzione tecnologica diventi un giorno più veloce dell’entropia umana.

In questa foto sono raffigurati i cilindri pieni di azoto liquido utilizzati dalla Alcor, per conservare, a -196 gradi C, i “pazienti”
Dal transumanesimo ai cyborg
Il transumanesimo ci conduce, quindi, nell’era dei cosiddetti cyborg. Per quanto fantascientifica possa apparire questa affermazione, l’era dei cyborg non è poi così lontana dall’attuale realtà. I cyborg (o “organismi cibernetici”), infatti, non sono altro che esseri umani a cui vengono applicate o impiantate componenti meccaniche e tecnologiche. Facciamo degli esempi che ci facciano comprendere come, in realtà, i cyborg siano già fra noi.
In particolare, pensiamo agli elettrodi impiantati nel cervello dei malati di Parkinson per ridurre i sintomi motori debilitanti tipici della malattia, all’impianto cocleare (ovvero l’impianto di un orecchio artificiale elettronico in grado di ripristinare la percezione uditiva nelle persone con sordità profonda), al pacemaker impiantato nel torace (ovvero il dispositivo elettronico che consente di controllare le anomalie del ritmo cardiaco), all’esoscheletro (ovvero un apparecchio cibernetico esterno in grado di potenziare le capacità fisiche dell’utilizzatore che ne viene rivestito e che rappresenta una sorta di “muscolatura artificiale” molto utile, soprattutto, per migliore la qualità della vita di persone affette da gravi disabilità).
Un video che ci mostra come gli esoscheletri siano di grande aiuto nella vita quotidiana
In tutti questi casi, quindi, siamo di fronte a esseri umani a cui vengono sostituite alcune parti biologiche oppure queste ultime vengono combinate ad apparecchiature artificiali, al fine di ripristinare il completo funzionamento dell’organismo o di potenziarlo.
Un altro esempio di tecnologia idonea a renderci cyborg è quella della “Brain-computer interface” (c.d. BCI) per tale intendendosi quella tecnologia capace di tradurre i segnali cerebrali in comandi digitali e, che, sostanzialmente, mira a creare un canale di comunicazione diretto tra il cervello umano e i computer. In altri termini, lo scopo della BCI è quello di consentire la “comunicazione telepatica” con un dispositivo elettronico, circostanza che, come vedremo nel proseguio, permette a un soggetto disabile di compiere azioni altrimenti precluse come guidare con la forza della mente la propria carrozzina.
Ma pensiamo, altresì, al fatto che, ormai, l’essere umano utilizza la tecnologia, ivi incluse anche le soluzioni controllate da algoritmi di apprendimento automatico, per compiere la maggior parte delle attività quotidiane, come il farsi guidare, mediante un App, nella scelta del tragitto più consono per raggiungere una determinata destinazione. Oggi l’essere umano dipende, quasi in maniera viscerale, dalla tecnologia, la quale viene percepita come una componente di sé.
E se, proprio questa dipendenza, fosse già sufficiente a considerarci dei cyborg? Come ha affermato lo scrittore e giornalista irlandese Mark O’Connell nel suo libro “To be a machine“: “Se non potete usare lo smartphone per una ragione qualsiasi – perché l’avete lasciato in un’altra giacca, o la batteria è scarica, o lo schermo si è rotto – cosa sentite? Lo strano formicolio di un arto fantasma? Non siamo, come si usa dire nel giro dei filosofi, già da sempre dei cyborg?”
Le origini del transumanesimo: la “singolarità tecnologica”
Il pensiero transumanista affonda le sue radici nella c.d. “singolarità tecnologica”, concetto elaborato dal matematico Vernor Vinge e descritto nel suo saggio “Technological Singularity” del 1993 in cui si afferma che “entro 30 anni avremo i mezzi tecnologici per creare un’intelligenza sovrumana. Poco dopo l’era degli esseri umani finirà”.
Per singolarità tecnologica si intende il momento in cui il progresso tecnologico accelererà oltre la capacità di comprensione e previsione degli esseri umani. La singolarità tecnologica, che secondo alcuni futurologi si realizzerà già nel 2045 quando la capacità di calcolo dei computer supererà quella dei cervelli umani, costituisce un “corollario” del principio secondo cui l’evoluzione della tecnologica tende a seguire un processo esponenziale, così come definito dalla “Legge dei ritorni accelerati”. Secondo questa legge della futurologia, il tasso di progresso tecnologico è una funzione esponenziale e non lineare; in altri termini, ogni nuovo progresso rende possibili molteplici progressi di livello più elevato piuttosto che un singolo e unico progresso, con la conseguenza che ogni anno viene realizzato un maggior numero di invenzioni e scoperte utili rispetto all’anno precedente.
Kurzweil e la “legge dei ritorni accelerati”
La legge dei ritorni acceleranti, proposta dall’inventore e informatico Ray Kurzweil nel saggio “The Law of Accelerating Returns”, costituisce, in realtà, un ampliamento della “Legge di Moore” in base alla quale la complessità dei microcircuiti, misurata ad esempio tramite il numero di transistor per chip, raddoppia periodicamente, ogni 18 mesi. Moore descrive un andamento esponenziale della crescita della complessità dei circuiti integrati; Kurzweil include in tale andamento di crescita anche le tecnologie precedenti ai circuiti integrati e ritiene che tale crescita esponenziale continuerà, in futuro, oltre l’utilizzo dei circuiti integrati con l’avvento di tecnologie che porteranno alla singolarità.
Secondo la visione di Kurzweil, sebbene l’incremento esponenziale delle prestazioni dei microchip abbia subito un rallentamento a partire dagli anni 2000, l’adozione di nuove tecnologie determina un punto di discontinuità nella curva esponenziale, da cui parte un nuovo andamento esponenziale.
Per buona parte dei futurologi, la singolarità tecnologica sarà raggiunta, in particolar modo, grazie all’intelligenza artificiale in quanto essa contribuirà all’implementazione delle nuove tecnologie emergenti in modo molto più rapido rispetto al passato, impattando, peraltro, sulla nostra comprensione di noi stessi in quanto esseri umani.
Intelligenza artificiale e transumanesimo: una convergenza inevitabile
Negli ultimi anni l’evoluzione dell’intelligenza artificiale ha subito un’accelerazione tale da renderla sempre più centrale nel dibattito sul transumanesimo. Non parliamo più di semplici algoritmi in grado di elaborare dati ma di sistemi capaci di apprendere, adattarsi, relazionarsi con l’essere umano in modo empatico, arrivando in alcuni casi a generare risposte percepite come emotivamente autentiche.
L’AI non è più uno strumento che si affianca all’uomo ma sta diventando una vera e propria estensione dell’identità cognitiva dei soggetti, un ponte tra la mente biologica e l’intelligenza digitale. Non a caso, pensatori come Ray Kurzweil continuano a sostenere che entro il 2029 l’intelligenza artificiale raggiungerà un livello pari a quello umano e che entro il 2045 l’uomo sarà in grado di fondersi con la macchina in una simbiosi definitiva. Kurzweil nel suo ultimo libro, “The Singularity is Nearer”, pubblicato nel 2024, ha confermato questa visione, arricchendola con riflessioni sulla memoria digitale, sui nanorobot e sulla possibilità di estendere la vita umana ben oltre i limiti attuali.
Nel frattempo, l’AI sta entrando con forza in ogni ambito della nostra quotidianità. Dai sistemi di supporto alle diagnosi mediche alle interfacce neurali sperimentali, passando per le piattaforme conversazionali avanzate capaci di sostenere un dialogo emotivo, la tecnologia non si limita più a rispondere: ascolta, comprende e accompagna. In ambito terapeutico, ad esempio, alcune AI sono oggi utilizzate come assistenti psicologici o come supporto emotivo per pazienti oncologici, dimostrando che anche la cura può passare da un’interazione uomo-macchina.
Accanto a queste applicazioni, emergono anche progetti che sembrano appartenere più alla fantascienza che alla scienza attuale. Uno di questi riguarda lo sviluppo degli “avatar digitali post-mortem”, entità in grado di replicare la personalità, la voce, i ricordi e il comportamento di una persona anche dopo la sua morte, grazie all’analisi di enormi quantità di dati personali. Seppur ancora sperimentali, queste tecnologie stanno già venendo testate in paesi come la Corea del Sud, gli Stati Uniti e la Svizzera, con l’obiettivo di preservare la memoria e l’identità digitale.
Questa nuova frontiera dell’AI non solo alimenta il sogno dell’immortalità transumanista, ma ci spinge anche a ridefinire il concetto stesso di umanità. Non più un limite biologico, ma un processo in continua evoluzione, dove ciò che siamo potrebbe presto estendersi ben oltre i confini del nostro corpo.
L’interfacciamento uomo-macchina
La conclusione che si trae dal presunto compimento della singolarità tecnologica è che, a fronte di una massiccia evoluzione della tecnologia e in particolare dell’intelligenza artificiale, l’essere umano sarà portato a “fondersi” con le macchine per non soccombere alle stesse.
In altri termini, il risultato della singolarità tecnologica sarà l’interfacciamento uomo-macchina.
L’obiettivo di creare un interfacciamento tra il cervello umano e le macchine è al centro della già citata Neuralink Corporation che a gennaio 2024 ha impiantato con successo il suo primo dispositivo cerebrale “Telepathy” su un paziente paraplegico, Noland Arbaugh. Il paziente è riuscito a controllare un computer con il solo pensiero, muovendo un cursore sullo schermo grazie all’attività elettrica della sua corteccia motoria. Pochi mesi dopo, Noland Arbaugh è stato in grado di navigare in internet, giocare a scacchi online e persino disegnare oggetti 3D, dimostrando le potenzialità immense di questa tecnologia.
Nonostante un iniziale problema tecnico – il parziale ritiro dei fili neurali impiantati – il team di Neuralink ha reagito rapidamente, migliorando l’algoritmo di decodifica e confermando la stabilità del sistema nel tempo.
Il video riporta un’intervista rilasciata da Noland Arbaugh in merito al dispositivo “Telepathy”. Attualmente Neuralink ha esteso i test clinici ad altri pazienti selezionati, con l’obiettivo di migliorare il controllo neurale di dispositivi esterni come protesi robotiche, computer e potenzialmente anche veicoli. Allo stesso tempo, aziende concorrenti come Synchron e Precision Neuroscience stanno portando avanti lo sviluppo di dispositivi minimamente invasivi, puntando ad un’integrazione più fluida ed accessibile con il sistema nervoso umano. In particolare la società newyorkese Precision Neuroscience, fondata nel 2021 da ex membri di Neuralink, ha sviluppato il Layer 7 Cortical Interface, un array sottilissimo (più sottile di un capello) con 1024 elettrodi, impiantato direttamente sulla superficie cerebrale senza la necessità di craniotomia invasiva. Nel febbraio 2025 la società ha ricevuto il via libera della FDA, acronimo di Food and Drug Administration, per l’uso clinico dell’interfaccia al fine di mappare l’attività cerebrale durante operazioni o per la stimolazione mirata. Entro il 2026 è previsto l’inizio dei trial per impianti permanenti destinati al controllo di arti bionici.
Biohacking, cos’è l’hackeraggio dell’essere umano
Una manifestazione del pensiero transumanista è certamente rintracciabile nel c.d. biohacking che consiste, per l’appunto, nella pratica di modificare la chimica e la fisiologia umana mediante la scienza, la tecnologia e l’auto-sperimentazione, allo scopo di migliorarne e potenziarne prestazioni e capacità.
Si distinguono, in realtà, differenti branche del biohacking: da quelle più “soft”, che puntano al miglioramento del corpo e del cervello umano mediante specifiche diete e l’esercizio fisico, a quelle che contemplano l’uso di sostanze nootrope o prevedono l’impianto di dispositivi tecnologici, per finire a quelle che mirano alla modifica dello stesso DNA umano attraverso l’ingegneria genetica.
In tutti questi casi lo scopo comune è il medesimo: migliorare il corpo e il cervello umano.
Ad esempio, le sostanze nootrope (o “smart drugs”) sono sostanze naturali o di sintesi che, tipicamente, agiscono alterando i livelli neurochimici, di enzimi o di ormoni nel cervello, perfezionando le capacità cognitive e potenziando, quindi, l’attenzione, la memoria e la velocità di ragionamento e di apprendimento.
Per quanto la sperimentazione nel settore delle smart drugs sia particolarmente attiva, non ci risulta che, ad oggi, siano stati sintetizzati nootropi in grado di farci vivere come nel film “Limitless”, dove il protagonista, grazie all’assunzione di un farmaco sperimentale nootropo chiamato NZT, riesce a trasformarsi in un vero e proprio superuomo.
Trailer del film “Limitless”
Oggi esistono sostanze che ci consentono, persino, di vedere al buio. È questo il caso della Chlorin E6, una sostanza brevettata da un gruppo di studenti californiani per contrastare il fenomeno della cecità notturna. Versando nell’occhio alcune gocce del composto, è possibile identificare al buio oggetti entro un raggio di circa 50 metri.

La foto mostra come si presentano gli occhi umani dopo l’esposizione al Chlorin E6
Particolarmente diffusa nella “comunità dei biohacker”, poi, è la pratica dell’implanting, ovvero dell’impianto di dispostivi nel corpo umano, aspetto, questo, che ci riporta nuovamente al concetto di cyborg. Tipico è il caso dell’innesto sottopelle di chip RFID, che consentono di aprire porte, pagare merci e memorizzare informazioni di contatto o dell’impianto di piccoli magneti sottocutanei che permettono all’essere umano di sollevare oggetti metallici e addirittura di percepire i campi magnetici.

La radiografia di una mano in cui è stato impiantato un chip RFID
Nel 2024, alcuni DIY biohackers hanno iniziato a sperimentare sensori cutanei per il monitoraggio in tempo reale dei livelli di cortisolo, sfruttando biomarcatori non invasivi connessi via Bluetooth a device mobili.
Nanorobotica: ingegneria su scala molecolare e potenziamento umano
La nanorobotica rappresenta una delle tecnologie di frontiera più promettenti nel contesto del potenziamento umano e, più in generale, della visione transumanista. Essa si riferisce alla progettazione e alla realizzazione di dispositivi robotici su scala nanometrica (1-100 nanometri), in grado di interagire con le strutture cellulari e molecolari dell’organismo umano. Tali dispositivi operano nel corpo come agenti intelligenti capaci di monitorare, diagnosticare, riparare e persino ristrutturare tessuti biologici con una precisione finora impensabile.
Nel pensiero transumanista, i nanorobot incarnano l’ideale della convergenza NBIC (acronomi di nanotecnologie, biotecnologie, informatica e scienze cognitive), fondamento teorico e tecnologico della trasformazione post-umana. Come sostenuto da Eric Drexler, uno dei pionieri del concetto di nanotecnologie, i nanorobot potrebbero agire come “assemblatori molecolari”, in grado di manipolare la materia con precisione atomica, inaugurando una nuova fase della medicina rigenerativa e del controllo biologico totale.
A partire da questa visione teorica, i recenti sviluppi nel campo offrono già alcune applicazioni concrete che, pur ancora in fase sperimentale, lasciano intravedere le potenzialità trasformative di tale tecnologia nei seguenti ambiti:
Oncologia di precisione: uno degli impieghi più studiati riguarda la somministrazione mirata di farmaci antitumorali. I nanorobot possono essere programmati per riconoscere marcatori molecolari specifici delle cellule cancerogene e rilasciare il principio attivo direttamente all’interno della massa tumorale, riducendo significativamente gli effetti collaterali sistemici. Un esempio concreto è rappresentato dai nanorobot a base di DNA impiegati per indurre l’apoptosi selettiva in cellule neoplastiche, testati in modelli murini con risultati promettenti.
Riparazione tissutale e rigenerazione: alcuni progetti internazionali stanno sviluppando nanodispositivi capaci di stimolare la rigenerazione di tessuti danneggiati, ad esempio nel caso di lesioni spinali o patologie neurodegenerative. Tali sistemi agiscono rilasciando fattori di crescita o riprogrammando le cellule in loco, agendo in sinergia con la medicina rigenerativa.
Rilevamento in tempo reale di biomarcatori: sono in fase di sperimentazione nanorobot capaci di monitorare costantemente il sangue alla ricerca di segnali precoci di malattia, come variazioni nella concentrazione di citochine, ormoni o metaboliti chiave. Alcuni prototipi integrano sensori biospecifici e microprocessori per elaborare dati direttamente nel flusso sanguigno, aprendo la strada alla diagnostica preventiva completamente automatizzata.
Interfaccia bio-digitale: in una prospettiva più speculativa ma coerente con la visione transumanista, si ipotizza che i nanorobot possano costituire una rete interna di “bio-sensori” integrata con intelligenze artificiali esterne o con impianti cerebrali, fungendo da canale bidirezionale per l’aggiornamento delle capacità cognitive e sensoriali umane. Questo approccio è compatibile con le teorie di Ray Kurzweil, secondo cui il futuro dell’uomo passa attraverso una fusione organica tra cervello biologico e computazione artificiale.
Transumanesimo: quali rischi per la privacy
Nel processo di convergenza tra uomo e macchina, uno degli aspetti più critici riguarda la tutela della privacy e la sicurezza dei dati bio-digitali. I nuovi strumenti di interfaccia cervello-computer (BCI), le reti di sensori biometrici permanenti e l’integrazione uomo-AI attraverso dispositivi impiantabili, come quelli proposti da Neuralink, pongono il problema della protezione delle informazioni più intime dell’individuo: pensieri, emozioni, pattern neurologici, condizioni fisiologiche in tempo reale.
Questi dati, trasmessi e processati tramite algoritmi di machine learning, potrebbero teoricamente essere intercettati, manipolati o utilizzati da terze parti per scopi commerciali, politici o di sorveglianza. Il rischio è quello di un’ulteriore erosione della sfera privata, dove il corpo stesso, ibridato con tecnologie intelligenti, diventa un nodo connesso in una rete di flussi informativi potenzialmente vulnerabili.
L’autenticazione neurale e le neurofirme personali, ad esempio, potrebbero diventare nuovi bersagli di furto d’identità o strumenti per la profilazione comportamentale avanzata. Parallelamente, l’impianto di una videocamera sostitutiva di un occhio umano rischia palesemente di ledere la privacy di tutti coloro che finiscano inconsapevolmente nel suo mirino.
Allo stesso modo, c’è da chiedersi, in caso di impianto di chip, dove e come vengano archiviate le relative informazioni e con quali misure di sicurezza vengano protette.
I rischi di cybercrime
L’introduzione su larga scala di impianti cerebrali, nanorobot terapeutici e interfacce digitali sottocutanee apre nuovi scenari nel campo della cybersecurity, con rischi che vanno oltre il digitale per impattare direttamente sull’integrità biologica e psicologica dell’individuo. Un attacco informatico condotto contro una rete neurale impiantata o la compromissione di un sistema di nanodispositivi interni non avrebbe soltanto effetti informatici ma potenzialmente conseguenze cliniche, comportamentali e cognitive gravi.
L’idea stessa di “bio-hacking ostile” – ossia la manipolazione malevola di sistemi biologici assistiti dalla tecnologia – è già oggi oggetto di studio in ambito militare ed accademico. Inoltre, le stesse AI che governano tali infrastrutture bio-integrate potrebbero agire in modo imprevedibile o essere soggette a bias e comportamenti emergenti non eticamente controllabili.
In un mondo post-umano, la sicurezza cibernetica non è più un dominio tecnico separato ma si fonde con la bioetica, la medicina e la tutela della libertà individuale
L’utilizzo di tutte queste nuove tecnologie, quindi, non potrà essere affidato al caso ma richiederà una più specifica regolamentazione.
Conclusioni
Ad ogni modo, la possibile svolta dell’Homo sapiens in cyborg non dovrebbe intimorirci.
Al di là dei profili puramente etici connessi al pensiero transumanista, sono due i fattori principali da prendere in considerazione per esprimere un giudizio di valore a loro proposito: in particolare, si deve prendere atto, da un lato, dell’esigenza, insita nella natura stessa dell’essere umano, di migliorarsi e, dall’altro, del costante e inarrestabile progredire della tecnologia, la quale sta acquisendo una sorta di “autoreferenzialità”.
Tenendo conto di questi due innegabili elementi, risulta chiaro, quindi, che l’essere umano, nella propria evoluzione, utilizzi la tecnologia e che la sua eventuale “trasformazione” in un ibrido uomo-macchina appaia come la più probabile e ovvia conseguenza di questo processo, scelto, del resto, dall’uomo stesso. Come sin da subito precisato, infatti, nell’ambito di questo nuovo step evolutivo, l’essere umano non è più un soggetto passivo, ma è artefice dell’evoluzione stessa in virtù del suo intervento sulla tecnologia.
Ignorare un processo evolutivo per la paura dell’ignoto, di certo, non ci aiuterà a meglio comprendere e gestire lo stesso. Invece, la consapevolezza del suo verificarsi può rappresentare il migliore strumento per evitare e prevenire eventuali rischi connessi al “mutamento” dell’essere umano.






