La mattina in cui il CEO di una storica azienda manifatturiera si vide proporre un progetto di intelligenza artificiale, il suo primo pensiero non fu rivolto alle macchine, ma alle persone. Nella sala riunioni, tra grafici di ROI e promesse di automazione, emerse un dilemma: investire nella formazione del personale interno o cercare nuovi talenti all’esterno?
Questo non è solo un aneddoto pungente, ma una realtà strategica: puntare su upskilling e reskilling dei dipendenti, ovvero aggiornare le competenze degli attuali lavoratori e riqualificarli per nuovi ruoli, si sta rivelando la scommessa vincente nell’era dell’AI. Aziende di tutto il mondo stanno scoprendo che investire nelle competenze legate all’intelligenza artificiale non è un costo da tagliare, ma un moltiplicatore di valore misurabile in termini di ritorno sull’investimento (ROI), maggiore produttività, riduzione dei costi operativi e duraturo vantaggio competitivo.
Indice degli argomenti:
L’ondata dell’AI e la sfida delle competenze
L’intelligenza artificiale sta trasformando ogni settore con una rapidità incredibile. Secondo il World Economic Forum, entro il 2025 l’automazione e l’AI potrebbero eliminare 85 milioni di posti di lavoro, ma allo stesso tempo crearne 97 milioni di nuovi, soprattutto in settori emergenti legati ai dati, all’AI e al cloud. Ciò significa che il lavoro non scomparirà, ma cambierà natura, richiedendo competenze diverse. Non a caso, si stima che quasi il 50% dei lavoratori dovrà aggiornare le proprie competenze nei prossimi cinque anni.
Questa “reskilling revolution” rappresenta una sfida epocale: le aziende che non riusciranno a colmare il gap di competenze rischiano di rimanere indietro. Già oggi il 46% dei leader aziendali riconosce che la carenza di skill nei propri team è un ostacolo significativo all’adozione dell’AI. D’altro canto, molti datori di lavoro vedono la luce in fondo al tunnel formativo: in media il 66% delle imprese si aspetta un ritorno degli investimenti in upskilling/reskilling entro un solo anno.
In altre parole, la formazione dei dipendenti nelle competenze AI è percepita non come un atto di beneficenza, ma come un volano che ripagherà velocemente in risultati tangibili.
Retraining, reskilling e nuove posizioni legate all’AI
Questa urgenza ha già innescato azioni concrete. Un sondaggio globale condotto da IBM tra CEO rivela che ben 31% della forza lavoro mondiale richiederà interventi di retraining o reskilling nei prossimi tre anni. Inoltre, oltre la metà dei CEO (54%) sta reclutando per posizioni legate all’AI che un anno fa neanche esistevano. Ciò segnala due cose: da un lato la nascita di ruoli completamente nuovi, dall’altro la difficoltà di trovare sul mercato professionisti già formati per tali ruoli. Ecco perché le aziende lungimiranti preferiscono formare i propri dipendenti.
Come afferma Saadia Zahidi del World Economic Forum, le imprese più competitive saranno quelle che investiranno con decisione nel capitale umano, nelle competenze dei propri dipendenti. Del resto, l’adozione dell’AI non riguarda solo l’acquisto di tecnologie, ma soprattutto la capacità di integrare le tecnologie nelle operazioni quotidiane,e questo richiede persone preparate.
Non stupisce quindi che le aziende pioniere dell’AI siano anche quelle che dedicano risorse strategiche all’upskilling: due terzi delle organizzazioni che hanno adottato l’AI precocemente hanno già un approccio strategico allo sviluppo dei talenti per soddisfare i requisiti futuri. Nell’onda dell’AI la vera discriminante tra chi soccomberà e chi prospererà sarà la capacità di apprendere e adattarsi continuamente.

Upskilling: da costo a investimento strategico
Per anni la formazione dei dipendenti è stata trattata come una voce di spesa sacrificabile, un “benefit” da elargire nei periodi di vacche grasse. Oggi questo paradigma si è capovolto: l’upskilling e reskilling sono investimenti strategici con un ROI concreto e misurabile. I dati lo confermano.
Un report del World Economic Forum evidenzia che la maggioranza dei datori di lavoro crede fermamente nel valore di queste iniziative, tanto che prevede di recuperare l’investimento in meno di 12 mesi. Ma quanto vale esattamente formare un dipendente invece di assumerne uno nuovo?
Uno studio condotto da The Adecco Group in collaborazione con Boston Consulting Group ha provato a quantificare il beneficio economico di una politica “forma, non licenziare”: il risultato è sorprendente. Le aziende possono risparmiare fino a 136mila dollari per ogni posizione evitando di licenziare e riassumere dall’esterno, e optando invece per il reskilling interno.
Questa cifra considerevole include vari fattori: buonuscite e costi di transizione per i lavoratori in uscita, costi di recruiting per i nuovi ingressi, cali di produttività durante l’onboarding e perfino l’impatto negativo sul morale e sull’employer branding che spesso seguono ai licenziamenti. Ogni volta che un’azienda “salva” un dipendente attraverso la formazione invece di sostituirlo, evita costi visibili e nascosti e trattiene un capitale di conoscenza prezioso.
Alcuni esempi concreti
Esempi reali illustrano bene questo concetto. Una grande società di servizi finanziari, impegnata in una trasformazione digitale, ha deciso alcuni anni fa di ribaltare il proprio approccio alla gestione del personale: meno spese in outplacement (uscite) e più in sviluppo. Il risultato? Nel giro di poco tempo ha invertito il rapporto investimenti, passando dal 70% destinato a costi di uscita e 30% a formazione, a esattamente l’opposto, con il 70% delle risorse ora indirizzato a sviluppo e crescita interna. Grazie a questa scelta, l’azienda ha ottenuto un ROI aggiuntivo di 15-20 milioni di dollari l’anno derivante da maggiore engagement, miglior retention e mobilità interna dei talenti. Non solo: riducendo drasticamente i licenziamenti, ha risparmiato circa 3-5 milioni di dollari all’anno in costi di liquidazione e reclutamento.
Come ulteriore riprova del successo, quella società è entrata nella prestigiosa lista Fortune “100 Best Companies to Work For”, segno che i dipendenti percepiscono e apprezzano l’impegno dell’azienda verso la loro crescita. Investire nelle persone, insomma, genera un circolo virtuoso: meno costi passivi, più valore attivo.
Un altro indicatore del ROI dell’upskilling viene dal campo della formazione tech. Secondo un’analisi del provider di formazione Multiverse, i progetti di skilling in ambito dati, software e analytics hanno portato complessivamente a 2,5 miliardi di dollari tra risparmi e nuove opportunità di ricavo per le aziende clienti. In parallelo, studi di Deloitte citati dallo SHRM indicano che le aziende con una forte cultura di apprendimento registrano una produttività superiore del 52% rispetto a chi investe poco nello sviluppo dei propri dipendenti.
Dati così solidi aiutano a convincere anche gli scettici: formare il personale non è un atto di fede, ma un’iniziativa misurabile in termini finanziari. E per chi temeva che i dipendenti formati potessero “volare via” verso lidi migliori, molte evidenze smentiscono questo timore: un lavoratore che vede l’azienda investire nella sua crescita è più propenso a restare e a contribuire con maggior impegno.
Basti pensare che il 71% dei lavoratori che hanno migliorato le proprie skill attraverso corsi di upskilling si dichiarano più soddisfatti del proprio lavoro, e la soddisfazione sul lavoro è uno dei fattori chiave di fedeltà all’azienda.
Inoltre, quasi 7 dipendenti su 10 (68%) si dicono disposti a riqualificarsi pur di avere successo in futuro, segno che la forza lavoro chiede opportunità di apprendimento. Ignorare questa domanda interna sarebbe miope; rispondervi, invece, significa aumentare la retention e ridurre i costi (spesso elevati) di turnover.
Produttività e innovazione: il boost della formazione AI
Un aspetto forse ancor più immediato del ROI finanziario è l’impatto sulla produttività. Quando i dipendenti acquisiscono competenze AI, l’efficienza operativa sale di livello. Non si tratta di slogan, ma di quanto sta accadendo in numerose organizzazioni.
In uno studio IBM del 2025 condotto in Europa, il 62% delle imprese dichiara di non aver ancora sfruttato appieno il potenziale dell’AI, proprio perché mancano competenze diffuse nella forza lavoro per implementarla efficacemente. Laddove l’AI è stata integrata con successo e accompagnata dalla formazione, i risultati non hanno tardato: oltre un quarto delle aziende (27%) sta già riscontrando aumenti di produttività traducibili in ritorni finanziari o risparmi, e un altro 34% prevede di ottenerli entro un anno. Questo significa che più della metà delle imprese coinvolte si aspetta benefici tangibili dall’AI in tempi brevissimi, a patto di superare le barriere iniziali, tra cui, appunto, la carenza di skill interni.
Non è un caso che lo stesso report IBM sottolinei come per sbloccare tutto il valore dell’AI sia fondamentale puntare sulla riqualificazione dei dipendenti, integrando le nuove competenze nell’organizzazione.
Più competitività dalla formazione in AI: il caso di IBM
Ma come si traduce la formazione in AI in maggiore produttività sul campo? Un esempio pratico viene dall’esperienza sul lavoro quotidiano. Conoscere strumenti di machine learning o saper sfruttare un modello di intelligenza artificiale generativa permette ai lavoratori di automatizzare le attività ripetitive e di concentrarsi su quelle a più alto valore aggiunto.
Alcuni dirigenti nel Regno Unito riportano che grazie ad AI e automazione i loro team stanno liberando tempo per compiti strategici: il 41% indica che l’AI consente di dedicarsi di più all’innovazione e sviluppo di nuove idee, un altro 41% di impegnarsi in attività creative, e quasi il 40% in decision-making strategico e pianificazione. In pratica, formando il personale ad usare bene l’AI, le aziende ottengono lavoratori aumentati, persone in grado di delegare alle macchine le incombenze a basso valore e focalizzarsi su iniziative che richiedono ingegno umano. Non sorprende dunque che internamente a IBM, dove ogni dipendente svolge in media 85 ore di formazione all’anno sulle piattaforme digitali, si osservi come l’AI stia aumentando la produttività e l’innovazione, offrendo un valore di business esponenziale.
D’altra parte, “le skill sono la moneta di domani”, afferma Kitty Chaney Reed, responsabile cultura e formazione di IBM: i leader che investono in upskilling godranno del ROI derivante dall’aver preparato la propria forza lavoro al futuro del lavoro.
Alcuni casi aziendali di rilievo
I casi aziendali concreti corroborano il legame tra competenze AI e performance. Verizon, gigante delle telecomunicazioni USA, ha attivato programmi interni che consentono ai dipendenti di aggiornarsi o riqualificarsi per nuove mansioni tech: il risultato è stato un incremento della produttività accompagnato da un tasso di retention tre volte superiore alla media statunitense.
Mastercard ha implementato un ampio programma di upskilling digitale per i suoi team, riscontrando una maggiore fidelizzazione dei dipendenti esperti e la capacità di attrarre competenze in-house per innovare più rapidamente.
E Yum! Brands,la società madre di KFC, Pizza Hut e Taco Bell,di fronte alla carenza di figure qualificate ha riqualificato dipendenti dai ristoranti in ruoli corporate, scoprendo così nuove fonti di talento interno per le proprie operazioni centralizzate. Questi esempi evidenziano un pattern comune: quando un’azienda investe nelle competenze AI della propria gente, non solo ottiene processi più snelli e maggiore produttività, ma spesso scopre di poter fare più cose con lo stesso organico, evitando di dover cercare fuori competenze che, opportunamente coltivate, esistevano già in casa. Si innesca inoltre un effetto collaterale benefico: i dipendenti formati si sentono valorizzati, diventano più proattivi e orientati al miglioramento continuo. La cultura dell’apprendimento continuo promuove anche la condivisione di conoscenze all’interno dell’organizzazione, creando team più versatili e innovativi. In sostanza, l’upskilling in ambito AI funge da catalizzatore: fa sì che la tecnologia dia il meglio solo quando incontra persone capaci di sfruttarla appieno.
Vantaggio competitivo e crescita sostenibile
Nel medio-lungo periodo, investire sulle competenze dei dipendenti non è solo una leva di efficienza, ma un motore di vantaggio competitivo durevole. In un contesto in cui le tecnologie evolvono di continuo, avere una forza lavoro agile e aggiornata permette alle imprese di adattarsi più velocemente ai cambiamenti del mercato rispetto ai concorrenti.
Immaginiamo due aziende rivali: una ha costantemente aggiornato le skill interne (data science, AI, analytics), l’altra si è affidata esclusivamente a esperti esterni o ha trascurato la formazione. Alla prossima svolta tecnologica, che si tratti di adottare un nuovo modello di AI generativa o di rispettare un’improvvisa regolamentazione sull’AI, quale delle due reagirà meglio? La risposta è intuitiva. Le organizzazioni che enfatizzano l’upskilling coltivano al proprio interno la capacità di innovare e trovare soluzioni, anziché dipendere solo dall’acquisto di soluzioni esterne. Ciò si traduce in un’agilità che è essa stessa vantaggio competitivo: poter lanciare prima di altri un nuovo servizio AI-driven, migliorare la customer experience con strumenti intelligenti, ottimizzare supply chain con algoritmi predittivi, tutte iniziative che richiedono persone competenti per essere ideate e implementate.
“Return on Individuals”
Le massime istituzioni economiche e molti top manager convergono su questo punto. Il World Economic Forum ha coniato l’espressione “Return on Individuals” per indicare un nuovo modo di pensare al ROI: non più solo Return on Investment finanziario, ma ritorno derivante dall’investimento sugli individui. Nel prossimo futuro, “le aziende più competitive saranno quelle che avranno investito pesantemente nel loro capitale umano”, ovvero nelle skill e competenze dei dipendenti.
Questa visione sposa l’idea di una forza lavoro “rinnovabile” anziché “usa e getta”. I benefici vanno oltre i numeri di breve termine: un’organizzazione che punta sulla crescita delle persone registra livelli più alti di coinvolgimento, produttività e redditività, perché i lavoratori sanno che il loro futuro è tutelato e che avranno opportunità di evolvere. Non solo. Tali aziende diventano “datori di lavoro di elezione” (employer of choice) per i talenti sul mercato, specialmente per le nuove generazioni che danno grande importanza allo sviluppo professionale e al learning culture rispetto alla mera retribuzione.
L’upskilling non solo consente di fare meglio oggi, ma attira i migliori per domani, creando un vantaggio competitivo anche nella guerra dei talenti.
IBM formerà 2 milioni di persone in AI entro il 2026
Diversi leader hanno ormai interiorizzato questo concetto. IBM, ad esempio, non si limita a vendere soluzioni AI ai clienti, ma ha anche lanciato un’iniziativa per formare 2 milioni di persone nelle competenze AI entro il 2026 a livello globale, in collaborazione con istituzioni educative. È una scommessa che va oltre l’azienda stessa, riconoscendo che un ecosistema ricco di competenze aiuta tutti a progredire. Altri giganti tech come Google, Microsoft o Amazon hanno avviato programmi interni di academy sull’AI e il machine learning per i propri dipendenti e community, con l’obiettivo di colmare il gap dall’interno. Del resto, la domanda di skill AI supera di gran lunga l’offerta disponibile sul mercato: formare talenti in casa è spesso l’unica via per disporre delle professionalità necessarie quando servono.
E c’è un ulteriore vantaggio: un dipendente riqualificato conosce già la cultura e i processi aziendali, il che lo rende capace di applicare le nuove competenze con cognizione del contesto, molto più rapidamente di un nuovo assunto.
Upskilling e reskilling nell’AI
Upskilling e reskilling nell’AI non sono mode passeggere, ma pilastri della strategia competitiva di un’azienda moderna. Come in una partita a scacchi, le aziende stanno scoprendo che la mossa vincente non è aggiungere pedine esterne, ma potenziare quelle che si hanno sulla scacchiera. Si tratta di un cambio di mentalità: vedere nei propri dipendenti non una spesa corrente, ma un patrimonio su cui investire per il futuro.
I risultati, sotto forma di ROI, innovazione e leadership di mercato, stanno dando ragione a chi ha avuto questo coraggio. E alla prossima sfida tecnologica, che si chiami intelligenza artificiale, automazione spinta o qualcos’altro ancora, quelle aziende saranno pronte a coglierne le opportunità, forti di una squadra che sa imparare e adattarsi. In un’epoca di cambiamento costante, la capacità di apprendere più velocemente della concorrenza potrebbe essere l’unico vero vantaggio competitivo sostenibile. E questo apprendimento organizzativo passa, inevitabilmente, per l’upskilling e il reskilling delle persone.







