La macro questione dell’addestramento dei modelli di intelligenza artificiale ha assunto una rilevanza giuridica di portata internazionale, ponendosi – in questi giorni più che mai – al centro di un dibattito che trascende i confini nazionali e le tradizionali categorie del diritto legato a concetti come privacy e proprietà intellettuale.
Il caso emblematico della recente disputa transfrontaliera tra i due modelli di intelligenza artificiale più utilizzati, ChatGPT della statunitense OpenAI e DeepSeek dell’omonima azienda cinese, manifesta, in tutta la sua complessità, la difficile applicazione degli attuali strumenti giuridici nel disciplinare fenomeni tecnologici di tale portata, soprattutto in tema di enforcement internazionale e l’emergere di dinamiche commerciali e geopolitiche che rischiano di cambiare non solo equilibri che sembravano consolidati ma la stessa funzionalità del sistema regolatorio globale.
L’evoluzione del dibattito e le nuove sfide geopolitiche
Mentre finora l’attenzione si era concentrata principalmente sulle azioni legali promosse contro OpenAI ed altre aziende statunitensi da parte di editori di rilievo internazionale (tra cui il New York Times, diversi gruppi editoriali canadesi e il Daily News) e rappresentanti dei vari settori creativi, l’emergere di DeepSeek ha introdotto una nuova dimensione nella questione giuridica. Il dibattito si è infatti esteso alle modalità con cui i modelli di intelligenza artificiale generativa possano reciprocamente utilizzare le capacità e le conoscenze di altri sistemi AI già presenti sul mercato per il proprio addestramento.
Le considerazioni di Alec Ross

Questa pratica, secondo l’analisi di Alec Ross, professore alla Bologna Business School ed ex consigliere per l’innovazione di Hillary Clinton, considerato tra le voci più critiche sull’AI Act, la regolamentazione europea e il ruolo dei Garanti nazionali in generale, potrebbe configurare una forma sofisticata di appropriazione di segreti industriali, trascendendo la mera violazione dei diritti di proprietà intellettuale per assumere rilevanza strategica sul piano della sicurezza nazionale.
Tale prospettiva allarga il focus del dibattito dalla dimensione puramente privatistica della tutela dei diritti aziendali verso considerazioni di politica industriale e geopolitica, evidenziando le vaste e complesse implicazioni della sempre più accesa competizione tecnologica internazionale nel settore dell’intelligenza artificiale.
L’osservazione di Ross coglie un aspetto fondamentale: la necessità di inquadrare queste controversie in un contesto più ampio di competizione strategica. La qualificazione come “spionaggio industriale” richiede tuttavia cautela. Dal punto di vista tecnico-giuridico, lo spionaggio industriale presuppone l’acquisizione illecita di segreti commerciali attraverso condotte fraudolente o la violazione di obblighi di riservatezza. Nel caso in esame, si tratterebbe piuttosto di un utilizzo sistematico di tecnologie pubblicamente accessibili, sebbene con modalità potenzialmente lesive dei diritti di proprietà intellettuale.
La dimensione internazionale della controversia
La dimensione internazionale della controversia amplifica ulteriormente queste criticità. Il confronto tra Stati Uniti e Cina nel settore dell’intelligenza artificiale non si limita infatti alla competizione commerciale, ma investe questioni strategiche di leadership tecnologica globale. Gli strumenti tradizionali del diritto commerciale internazionale si stanno rivelando in tale contesto e al momento non del tutto sufficienti, richiedendo altresì l’integrazione con normative specifiche in materia di sicurezza nazionale e trasferimento tecnologico.
D’altro canto, il ruolo dei Garanti nazionali della privacy (le Autorità Garanti di Italia e Belgio hanno bloccato l’accesso a sito e app) ha permesso finora di evitare che l’ingresso nel mercato europeo di DeepSeek avvenisse a danno dei diritti fondamentali dei cittadini europei.

Enforcement transfrontaliero nelle questioni di IP/AI
Proprio sotto il profilo della proprietà intellettuale e dell’enforcement giuridico, la fattispecie in esame presenta peculiarità degne di approfondimento, considerando come l’utilizzo di dati preesistenti per l’addestramento di modelli AI si collochi in una zona grigia del diritto, dove gli istituti tradizionali continuano a mostrare evidenti limiti applicativi. In particolare, l’istituto del Fair Use, cardine del sistema giuridico statunitense in materia di copyright e alla base delle tesi difensive di OpenAI nelle principali cause intentate presso le corti statunitensi e indiane (ANI vs Open AI), potrebbe paradossalmente ritorcersi contro la stessa società californiana nel dibattito giuridico contro DeepSeek.
La natura open source del modello cinese, infatti, potrebbe teoricamente soddisfare più agevolmente i requisiti applicativi della dottrina del Fair Use, considerando la sua maggiore aderenza ai principi di trasformazione e accessibilità pubblica che ne costituiscono il fondamento giuridico.
L’inadeguatezza strutturale degli strumenti convenzionali di tutela della proprietà intellettuale
Nel contesto dell’enforcement transfrontaliero (cioè della capacità di far materialmente applicare le normative esistenti a livello internazionale) relativo alle dispute sull’intelligenza artificiale il confronto USA-Cina evidenzia l’inadeguatezza strutturale degli strumenti convenzionali di tutela della proprietà intellettuale.
La Convenzione di Berna, pietra angolare del sistema internazionale del diritto d’autore fin dal 1886, si mostra strutturalmente inadatta a regolare le peculiarità dell’intelligenza artificiale. Parallelamente, il TRIPS Agreement (Trade-Related Aspects of Intellectual Property Rights), l’accordo multilaterale sottoscritto nel 1994 nell’ambito del WTO e vincolante per tutti i membri dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, pur rappresentando il più completo trattato sulla proprietà intellettuale e introducendo standard minimi di tutela per brevetti, copyright, marchi e segreti commerciali, sembra oggi cedere il passo sia alle specificità dei sistemi di AI che alle nuove frontiere geopolitiche in via di assestamento.
In questo neo-vuoto normativo, l’enforcement sta assumendo caratteristiche sui generis che trascendono gli strumenti tradizionali previsti dalle convenzioni internazionali. Mentre la Convenzione di Berna prevede meccanismi di tutela basati sulla territorialità dei diritti e sulla materialità delle violazioni, l’intelligenza artificiale -al netto della presenza dei territoriale dei server- opera in uno spazio virtuale che sembra sfuggire a tali parametri.
Gli accordi WIPO sul diritto d’autore (WCT) e sulle interpretazioni ed esecuzioni e sui fonogrammi (WPPT), pur introducendo elementi di tutela per l’ambiente digitale, non affrontano le specificità dell’AI, lasciando irrisolte questioni fondamentali come la legittimità del web scraping per finalità di training.

La posizione dell’amministrazione Trump
In questo intricato scenario, sia gli Stati Uniti che la Cina hanno sviluppato approcci che privilegiano strumenti di enforcement extra-convenzionali, basati su meccanismi di controllo amministrativo e regolatorio piuttosto che sui tradizionali rimedi giurisdizionali previsti dalle convenzioni internazionali. L’amministrazione Trump, d’altronde, sembra voler sempre più allontanarsi dagli accordi di libero scambio, avendo recentemente imposto tariffe e dazi doganali nei confronti di numerosi partner commerciali.
La tendenza alla configurazione di blocchi tecnologici differenziati, contraddistinti da standard tecnici e meccanismi di tutela sostanzialmente ancora poco compatibili, ha fatto emergere il ruolo dell’Unione Europea quale polo regolatorio di riferimento. Quest’ultima, attraverso l’elaborazione di un framework normativo organico in materia di intelligenza artificiale (AI Act), oltre che in materia di privacy (GDPR) finisce paradossalmente per fornire un modello di governance più funzionale agli interessi statunitensi di quanto non lo sia l’approccio deregolatorio perseguito oltreoceano.
Il case study ANI vs OpenAI
In relazione all’enforcement internazionale, tale scenario trova una significativa esemplificazione nel contenzioso instaurato dall’agenzia di stampa indiana ANI contro OpenAI dinanzi alla Corte di Delhi, che rappresenta un caso paradigmatico delle problematiche di effettiva tutela procedurale nell’ambito delle controversie inerenti la proprietà intellettuale e l’intelligenza artificiale. La controversia, originata dall’asserito utilizzo non autorizzato di contenuti giornalistici per l’addestramento dei modelli AI di OpenAI, caratterizzata dall’intervento adesivo di rilevanti gruppi editoriali indiani facenti capo agli imprenditori Adani e Ambani, ha assunto una dimensione sistemica che trascende la mera disputa bilaterale.
Sul piano processuale, la difesa di OpenAI si articola attraverso l’eccezione preliminare di difetto di giurisdizione, fondata su un triplice ordine di argomentazioni:
- la clausola di elezione del foro di San Francisco
- l’assenza di server sul territorio indiano
- la natura extraterritoriale delle attività, strategia che si scontra con il precedente Telegram del 2022, in cui i giudici indiani hanno elaborato una nozione innovativa di giurisdizione digitale basata sull’accessibilità del servizio e sulla rilevanza del mercato locale.
La complessità della vicenda è ulteriormente accentuata dalla contemporanea pendenza di azioni analoghe in diverse giurisdizioni (Stati Uniti, Germania e Canada) e dalla natura peculiare dei rimedi richiesti – cancellazione dei dati di training e risarcimento di 230mila dollari – che pongono importanti questioni in termini di efficacia transnazionale dei provvedimenti e di proporzionalità delle misure inibitorie, considerata la rilevanza del mercato indiano quale secondo per dimensioni a livello globale per OpenAI.
La decisione che la Corte di Delhi è chiamata ad assumere sulla questione preliminare della giurisdizione nel corso del mese di febbraio potrebbe costituire un precedente significativo nella definizione dei limiti della giurisdizione nazionale nell’ambito delle tecnologie digitali e nell’elaborazione di strumenti processuali adeguati alla natura peculiare delle violazioni in materia di AI.
Conclusioni
La vicenda processuale tra OpenAI e DeepSeek mette in luce come l’intero arsenale argomentativo dispiegato dalla società californiana nelle varie giurisdizioni possa trasformarsi in un pericoloso boomerang giuridico. Non solo la dottrina del Fair Use, ma l’intera costruzione difensiva – dall’eccezione di incompetenza giurisdizionale basata sull’assenza di server locali, alla natura extraterritoriale delle attività, fino alla contestazione dell’enforcement transnazionale – potrebbe essere specularmente invocata da DeepSeek, minando dalle fondamenta la posizione processuale di OpenAI.
La fragilità di tale impianto emerge con particolare evidenza se si considera come gli argomenti utilizzati da OpenAI nella controversia indiana – la clausola di elezione del foro di San Francisco, l’assenza di infrastrutture fisiche sul territorio, la natura virtuale e transfrontaliera del servizio – potrebbero essere agevolmente ripresi da DeepSeek per contestare qualsiasi tentativo di enforcement giurisdizionale da parte occidentale. Questo cortocircuito argomentativo rivela come le questioni di proprietà intellettuale nel settore dell’AI siano destinate a trovare soluzione non tanto sul piano giuridico tradizionale, quanto piuttosto attraverso strumenti di natura politico-diplomatica ed economica.
In questo contesto, la Convenzione di Berna e l’intero apparato normativo classico della proprietà intellettuale si rivelano strutturalmente inadeguati a governare le dinamiche dell’intelligenza artificiale su un piano geopolitico globale in cui gli Stati Uniti dell’amministrazione Trump sembrano privilegiare una spinta isolazionista. L‘enforcement dei diritti di proprietà intellettuale si sposta necessariamente sul piano delle relazioni internazionali e della regolamentazione tecnologica, dove gli strumenti tradizionali del diritto cedono il passo a meccanismi di pressione economica e diplomatica, analogamente a quanto già sperimentato nel caso Huawei.
La vera partita si gioca quindi sul piano geopolitico, dove le dispute sulla proprietà intellettuale fungono da proxy per più ampie tensioni strategiche nel controllo dello sviluppo dell’intelligenza artificiale, anche considerando l’apparente incoerenza delle posizioni processuali assunte dai vari attori nelle diverse giurisdizioni.