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Il Cloud cognitivo: l’era della scalabilità predittiva e delle architetture intelligenti



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L’AI diventa il motore d’orchestrazione delle architetture Cloud Native. AIOps, scaling predittivo e sistemi self-healing per infrastrutture autonome, resilienti e ottimizzate in tempo reale

Pubblicato il 12 dic 2025

Gioele Fierro

CEO e Founder Promezio Engineering



applicazioni cloud

Le infrastrutture digitali in cloud sono diventati sistemi intelligenti reattivi, capaci di autogestirsi e di adattarsi in tempo reale alle esigenze del business. Questa nuova dinamicità ha spostato il baricentro dei problemi architetturali che le aziende si trovano a gestire. Le complicazioni non riguardano più la disponibilità dello spazio di archiviazione o la potenza di calcolo bruta, ma la complessità esponenziale dei servizi e della loro orchestrazione.

Gestire manualmente la scalabilità di sistemi composti da centinaia di microservizi, in scenari spesso caratterizzati da volatilità e picchi di traffico imprevedibili, è diventato insostenibile senza l’ausilio di strumenti per l’automazione.

L’intelligenza artificiale quindi oltre a essere un workload da ospitare sulle piattaforme cloud, diventa un motore d’orchestrazione, un amministratore autonomo che ottimizza le risorse, scala le istanze e garantisce la resilienza operativa.

Analizziamo l’integrazione profonda tra modelli LLM (Large Language Model) e strategie di configurazione e autoscaling predittivo.

Cosa sono le applicazioni cloud e come funzionano

Esiste una distinzione fondamentale tra l’approccio Lift & Shift e lo sviluppo Cloud Native. Nel primo caso, le aziende prendono le loro applicazioni tradizionali, spesso monoliti software stratificati in anni di sviluppo, e le spostano su macchine virtuali nel cloud quasi identiche ai server on-premise. Questo approccio, anche se utile per dismettere data center proprietari, non sfrutta le vere potenzialità dell’elasticità del cloud: l’applicazione rimane rigida, difficile da aggiornare e costosa da mantenere, replicando nel cloud le inefficienze derivanti dalla manutenzione di un server.

Il concetto di cloud native rappresenta invece una revisione filosofica e tecnica delle architetture software. Le applicazioni native sono progettate sin dal primo giorno per vivere nel cloud.

Esse si basano su quattro pilastri fondamentali:

  1. DevOps,
  2. Continuous delivery
  3. Microservizi
  4. Container.

La caratteristica distintiva è l’astrazione totale dall’infrastruttura sottostante; l’applicazione non conosce nulla del server che la ospita e non ne ha bisogno. Questo disaccoppiamento permette agli sviluppatori di concentrarsi sulla logica di business, lasciando al servizio in cloud la gestione delle risorse hardware, in un modello di responsabilità condivisa che accelera l’innovazione.

In un’architettura moderna, le applicazioni sono progettate presupponendo che l’infrastruttura sottostante possa fallire in qualsiasi momento.

I sistemi di self-healing, o auto-riparazione, rilevano automaticamente un malfunzionamento e sostituiscono l’istanza corrotta con una nuova, senza che l’utente finale percepisca alcuna interruzione del servizio.

    Il Cloud native ha molti vantaggi, uno dei piú rilevanti è l’agilità, che si traduce direttamente in una riduzione del time-to-market.

    Grazie alle pipeline di Continuous Integration e Continuous Deployment e all’Infrastructure as Code, le aziende possono rilasciare nuovi upgrade più volte al giorno, anziché ogni sei mesi. L’infrastruttura programmabile permette di creare ambienti di test identici alla produzione in pochi minuti, eliminando gli ostacoli che frenano i dipartimenti IT.

    Dal punto di vista economico, il passaggio al cloud segna la transizione definitiva dal modello CapEx (spese in conto capitale) al modello OpEx (spese operative). Invece di immobilizzare capitali in hardware che si deprezza rapidamente e che deve essere dimensionato per il picco massimo di utilizzo (restando inutilizzato per la maggior parte del tempo), le aziende passano a un modello a consumo.

    Ed é in questo contesto che le tecnologie di scalabilità intelligente possono ridurre drasticamente la fattura cloud, trasformando i costi fissi in costi variabili allineati al fatturato.

    applicazioni cloud

    Architettura e componenti delle applicazioni cloud

    Il superamento dell’architettura monolitica avviene attraverso la sua decostruzione in microservizi. Immaginiamo un’applicazione come una costellazione di servizi discreti e indipendenti. Questi componenti comunicano tra loro attraverso API (Application Programming Interfaces) leggere e standardizzate.

    Questo approccio permette una manutenibilità granulare, se uno dei servizi necessita di un aggiornamento di sicurezza, può essere modificato e ridistribuito senza dover fermare l’intera struttura, minimizzando il downtime.

    Per rendere portabili e gestibili questi microservizi, l’industria ha adottato lo standard dei Container, con docker come capofila. Il container è un pacchetto software che include tutto ciò che serve all’applicazione per funzionare: codice, runtime, librerie di sistema e impostazioni. Questo garantisce che il software si comporti esattamente allo stesso modo indipendentemente da dove viene eseguito.

    Gestire centinaia o migliaia di container richiede un direttore d’orchestra come Kubernetes. Si tratta di un tool che automatizza il deployment, lo scaling e la gestione delle applicazioni containerizzate, decidendo autonomamente su quali nodi fisici allocare i container in base alle risorse disponibili e alle regole impostate, diventando di fatto una sorta di sistema operativo del cloud moderno.

    L’era del cloud native ha anche sancito la fine del dominio assoluto del database relazionale classico (RDBMS) come unica soluzione per la gestione dei dati. Le moderne applicazioni cloud richiedono la gestione di dati eterogenei, strutturati e non strutturati, con volumi e velocità di ingestione che i vecchi database SQL faticano a gestire.

    Le nuove architetture sfruttano database NoSQL (come MongoDB o Cassandra), NewSQL e database Time-Series, progettati specificamente per scalare orizzontalmente su centinaia di nodi.

    La gestione dei big data necessari per l’addestramento dei modelli di AI ha reso centrale il ruolo dei data lake e dell’object storage (come Amazon S3 o Azure Blob Storage). Questi sistemi permettono di archiviare quantità virtualmente infinite di dati grezzi a costi molto contenuti, separando il calcolo dallo storage.

    Questi servizi ospitano i dataset su cui le aziende addestrano i propri modelli di intelligenza artificiale. La capacità di accedere a questi dati con elevata larghezza di banda è ciò che rende possibile il training di modelli complessi in tempi ragionevoli.

    Operare in un ambiente distribuito comporta peró delle sfide teoriche e pratiche, riassunte nel Teorema CAP (Consistency, Availability, Partition tolerance), il quale postula che un sistema distribuito non possa garantire simultaneamente tutte e tre queste proprietà.

    In fase di progettazione quindi gli ingegneri devono compiere scelte consapevoli, sacrificando talvolta la coerenza immediata del dato (eventual consistency) a favore della disponibilità del servizio, per garantire che l’applicazione risponda sempre all’utente, anche in caso di partizione della rete o guasti parziali.

    Integrazione dell’intelligenza artificiale nelle applicazioni cloud

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    La democratizzazione dell’AI passa attraverso il machine learning as a service (MLaaS). Piattaforme come AWS SageMaker, Google Vertex AI e Azure Machine Learning offrono ambienti gestiti end-to-end che rimuovono la complessità infrastrutturale del training dei modelli. Invece di tentare di accapparrarsi costose GPU, le aziende possono affittare potenza di calcolo specializzata per il tempo strettamente necessario all’addestramento, pagando al secondo.

    Questo abbassa drasticamente la barriera d’ingresso per l’adozione dell’AI, permettendo anche alle PMI di sperimentare con reti neurali avanzate.

    Oltre agli ambienti di sviluppo, il cloud offre le cosiddette API cognitive, che permettono un’integrazione Low-code o No-code. Sviluppatori senza competenze specifiche in Data science possono integrare funzionalità di visione artificiale, riconoscimento vocale, traduzione automatica e analisi del linguaggio naturale semplicemente effettuando una chiamata API. Questo approccio permette di arricchire le applicazioni legacy con funzionalità smart in poco tempo e senza affrontare i costi di personale altamente qualificato.

    L’applicazione più strategica dell’AI nel cloud è probabilmente quella meno visibile all’utente finale: l’AIOps (Artificial Intelligence for IT Operations). In questo ambito, l’AI analizza i terabyte di log e metriche generati dall’infrastruttura per identificare correlazioni impossibili da rilevare per un operatore umano.

    L’AIOps permette di passare da una gestione reattiva, non si attende più che il server si blocchi per intervenire, ma si riceve un alert quando il sistema rileva un’anomalia comportamentale che precede il guasto, permettendo interventi preventivi che azzerano i tempi di inattività. Algoritmi avanzati analizzano i pattern di utilizzo delle risorse aziendali per suggerire l’acquisto di istanze riservate (più economiche per carichi stabili) o l’uso di istanze spot (eccedenza di capacità dei provider venduta a prezzi stracciati) per carichi interrompibili.

    Per queste applicazioni operative vengono impiegati Small Language Model, modelli specializzati di dimensioni ridotte che riducono i costi di inferenza rendendo economicamente sostenibili casi d’uso che con modelli più pesanti sarebbero proibitivi.

    Anche la sicurezza beneficia enormemente dell’intelligenza artificiale. La sicurezza predittiva utilizza algoritmi di apprendimento automatico per analizzare il traffico di rete in tempo reale e identificare pattern di attacco, come tentativi di intrusione o attacchi DDoS (Distributed Denial of Service), distinguendoli dai picchi di traffico legittimo.

    I sistemi moderni possono automatizzare le risposte difensive, bloccando gli IP malevoli o isolando le risorse compromesse in millisecondi, una velocità di reazione fondamentale in un panorama di minacce sempre più automatizzato e veloce.

    Scalabilità e performance delle applicazioni cloud

    Quando si parla di infrastrutture adattabili é essenziale distinguere tra scalabilità verticale (scale up) e orizzontale (scale out).

    La scalabilità verticale è la piú semplice, e implica l’aggiunta di memoria e potenza computazionale alla singola macchina virtuale. Il cloud native si presta anche alla scalabilità orizzontale, ovvero l’aggiunta di più nodi (macchine) al cluster per distribuire il carico. Questo approccio è teoricamente infinito e si sposa perfettamente con l’architettura a microservizi stateless, dove ogni richiesta può essere gestita da una qualsiasi delle istanze disponibili.

    Tradizionalmente, l’autoscaling era basato su regole statiche del tipo: se la CPU supera l’80% per 5 minuti, aggiungi due server. Questo approccio ha una latenza non trascurabile. Tra il momento in cui si verifica il picco di traffico e il momento in cui le nuove istanze sono operative e pronte a ricevere traffico, possono passare diversi minuti. In questo lasso di tempo, l’applicazione soffre, le prestazioni degradano e gli utenti sperimentano rallentamenti o errori.

    Il predictive scaling

    La soluzione è il predictive scaling, la scalabilità guidata dall’AI. I moderni sistemi di orchestrazione utilizzano modelli di machine learning per analizzare lo storico del traffico, identificando pattern di stagionalità e correlandoli con eventi specifici, come una campagna di marketing o un altro evento impattante.

    L’intelligenza artificiale è in grado di prevedere che il traffico aumenterà può ordinare al sistema di pre-allocare le per tempo. In questo modo, quando gli utenti arrivano, l’infrastruttura è già dimensionata per accoglierli, garantendo prestazioni ottimali senza latenze.

    Per abilitare questo livello di automazione il monitoraggio non basta più, serve l‘Observability. Mentre il monitoraggio identifica un sistema lento, l’osservabilità permette di capire perché lo é. Attraverso il tracing distribuito, è possibile seguire il percorso di una singola transazione utente attraverso decine di microservizi, individuando con precisione quale componente sta introducendo un rallentamento. Gli strumenti moderni correlano log, metriche e tracce in un’unica vista, fornendo agli ingegneri la visibilità necessaria per ottimizzare architetture complesse.

    I Self-Healing Systems, grazie all’integrazione dell’AI, riescono a tracciare i malfunzionamenti e tentano attivamente di risolverli. Se un nodo Kubernetes smette di rispondere ai controlli di integrità, il sistema può automaticamente isolarlo, reindirizzare il traffico verso nodi sani, terminare l’istanza corrotta e lanciarne una nuova, ripristinando lo stato desiderato senza alcun intervento umano.

    L’architettura software moderna si orienta verso il NoOps, uno scenario in cui l’infrastruttura è completamente astratta e autonoma, gestita da algoritmi che ottimizzano costantemente performance, costi e sicurezza. Il cloud diventa un asset che, se alimentato dai dati e governato dall’intelligenza artificiale, permette di emergere in un mercato che non perdona la lentezza.

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