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L’HR come job curator: il futuro del lavoro tra “AI-native employee” e “colleghi digitali”



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Il futuro del lavoro non si giocherà soltanto sulla potenza degli algoritmi, ma sulla capacità delle aziende di introdurli con equilibrio. L’HR dovrà evolversi verso un nuovo ruolo, il job curator, l’architetto della fiducia in un ecosistema dove persone e agenti intelligenti convivono

Pubblicato il 17 nov 2025

Anna Paterlini

co-founder e client director di Newu



job curator

L’intelligenza artificiale sta accelerando, ma la cultura organizzativa fatica a tenere il passo. Il World Economic Forum stima che entro il 2030 il 41% delle attività sarà svolto in collaborazione tra persone e sistemi intelligenti, mentre il 97% dei datori di lavoro prevede di aumentare l’automazione dei processi. Eppure, secondo McKinsey, solo l’1% delle aziende si considera realmente “maturo” nell’adozione.

I dati ci dicono che la trasformazione corre, ma l’organizzazione resta spesso indietro e che l’entusiasmo per l’AI convive con resistenze culturali e strutturali profonde che permangono nelle aziende a tutti i livelli.

Il “pilot purgatory” e la resistenza all’innovazione

Quello che sta accadendo è che si investe in piattaforme e modelli predittivi, ma si sottovaluta la dimensione umana dell’innovazione. Senza una regia culturale, i progetti restano confinati alla fase pilota e non diventano parte dei processi quotidiani.

È il fenomeno che molti esperti definiscono “pilot purgatory”: una sperimentazione perpetua senza cambiamento reale. Perché le barriere all’adozione non sono soltanto tecniche. Mancano competenze trasversali, strategie chiare e una visione di lungo periodo. A questo si aggiunge il cosiddetto effetto FOBO (Fear of Becoming Obsolete) la paura di diventare irrilevanti. Secondo l’Eurobarometro, due terzi degli europei temono che l’AI distruggerà più posti di quanti ne creerà.

Un sentimento che riduce la disponibilità al cambiamento e all’apprendimento rallenta la collaborazione e inibisce la creatività. In questo contesto, è chiaro che la risposta non può essere solo più formazione tecnica: serve una cultura di fiducia, in cui la tecnologia venga percepita come leva di crescita, non come minaccia.

Dall’HR manager al job curator

È qui che il ruolo delle risorse umane si trasforma. L’HR manager tradizionale lascia spazio al job curator, una figura che non si limita a gestire persone, ma ha il compito di curare l’equilibrio tra competenze umane e capacità digitali. Il job curator collega la dimensione tecnologica a quella sociale, traduce la complessità dell’AI in pratiche comprensibili e misurabili.

In questo nuovo ruolo diventa il custode della fiducia in azienda, colui che garantisce che l’innovazione non ti spazzerà via. Il job curator interviene lungo tutta la catena del valore delle persone.

Nel reclutamento valuta non solo le competenze tecniche, ma la curiosità, la capacità di apprendere con le macchine, l’apertura al nuovo. Nell’onboarding introduce regole semplici e trasparenti sull’uso dell’AI e affianca ai nuovi assunti AI champions, figure interne che facilitano l’apprendimento. La formazione diventa continua e basata sull’esperienza: prompt lab, simulazioni brevi, momenti di confronto collettivo.

Governance e velocità: la nuova linea di faglia dell’innovazione

Ma è sulla governance che il cambiamento diventa strutturale, poiché in questo scenario diventa fondamentale colmare lo scarto che si genera tra IT e HR. Quasi metà delle aziende del FTSE 100 ha già introdotto un Chief AI Officer, ma dove questa figura non esiste, la responsabilità si distribuisce tra le diverse funzioni e l’HR diventa “radar culturale”, in grado di intercettare segnali di resistenza, adattare il linguaggio e allineare la velocità della tecnologia al ritmo delle persone.

Ed è proprio la questione della velocità (cioè quanto spingere sull’acceleratore dell’AI e fino a che punto farlo in sicurezza) a segnare oggi la linea di faglia dell’innovazione. Le aziende si muovono in un equilibrio instabile: chi procede troppo lentamente rischia di restare indietro rispetto ai concorrenti, chi corre senza governance può compromettere reputazione e fiducia.

Il compito del job curator, in questo contesto, è anche quello di tradurre il concetto di “adozione responsabile” in politiche interne comprensibili, contribuendo a trovare un ritmo sostenibile tra sperimentazione e controllo.

Il tema d’altra parte non è semplice. A livello globale, anche i vertici dell’industria divergono sulla direzione da prendere. Mark Zuckerberg (Meta) difende un approccio aperto: modelli pubblici come Llama, accessibili a sviluppatori e aziende, che secondo lui accelerano l’innovazione e migliorano la sicurezza attraverso la trasparenza.

Dario Amodei, CEO di Anthropic, sostiene invece una linea opposta: crescita controllata, livelli di sicurezza progressivi e attenzione ai rischi sistemici. Due visioni che riflettono la stessa frattura che vivono le imprese: apertura o prudenza? Velocità o regolazione?

I nuovi protagonisti: AI-native employee e colleghi digitali

Intanto, sta entrando in scena un nuovo protagonista: l’AI-native employee. È il lavoratore che considera naturale delegare parte delle decisioni all’intelligenza artificiale. Non teme gli algoritmi, ma pretende chiarezza su come vengono usati. Ha una mentalità da startup, ricerca autonomia e velocità e mette in discussione gerarchie e modelli di valutazione tradizionali. Per queste generazioni l’AI è un’estensione del proprio pensiero operativo, non uno strumento esterno.

Accanto a loro emergono gli AI agent, sistemi autonomi capaci di pianificare ed eseguire interi flussi di lavoro con minima supervisione umana. Microsoft li descrive come “colleghi digitali” che pensano e agiscono in base agli obiettivi assegnati. KPMG stima che l’87% dei leader ritenga che la loro introduzione costringerà a ridefinire le metriche di performance.

In questo scenario, la responsabilità non può sparire: ogni agente deve avere regole di tracciabilità, cicli di revisione umana e confini di autonomia chiari. È in questo punto d’incontro tra le generazioni di lavoratori “analogici”, che hanno costruito la cultura aziendale, e i nuovi protagonisti digitali, che la stanno riscrivendo, che il job curator assume un ruolo decisivo. Il suo compito è fare in modo che la convivenza tra esperienza e innovazione sia produttiva e non frustrante, attraverso la costruzione di un linguaggio comune e di processi inclusivi.

In questo ruolo potremmo definirlo “architetto culturale”, capace di tradurre visioni e competenze diverse in una direzione condivisa: preserva la conoscenza tacita dei lavoratori senior, valorizza la rapidità e la sperimentazione degli AI-native e garantisce che la tecnologia diventi terreno di collaborazione, non di frattura.

Il nuovo patto di lavoro nell’impresa AI-ready

Le aziende più avanzate hanno iniziato a sperimentare questa nuova architettura del lavoro.

Allianz ha introdotto oltre 50 ore di formazione in AI per dipendente, affiancando ai manager programmi come AI Runs e Tech4Leaders.

Aviva ha ridotto del 25% i tempi di gestione dei sinistri co-progettando flussi GenAI con i dipendenti.

Moderna ha creato una AI Academy e una rete di oltre cento AI Champions interni.

Colgate-Palmolive ha puntato sulla curiosità, distribuendo prototipi rapidi per normalizzare l’uso della tecnologia senza imposizioni.

Tutti casi in cui l’HR ha agito da cerniera tra tecnologia e team, stimolando la curiosità individuale per promuoverne l’adozione senza imposizioni dall’alto e facendo della fiducia un asset produttivo, i risultati sono arrivati. In tutti questi casi, infatti, il filo conduttore è la fiducia intesa come competenza organizzativa che trasforma l’innovazione in valore.

Le regole che per decenni hanno governato tempi, responsabilità e merito diventano oggetto di una nuova contrattazione perché l’AI modifica la distribuzione del potere decisionale dentro le imprese, sposta il baricentro dal controllo all’interpretazione, dall’esecuzione alla supervisione. Richiede di chiarire chi decide, chi verifica e come si attribuisce il valore delle scelte.

Il job curator è dunque la figura che traduce questi macro-orientamenti in prassi: abitua le persone a lavorare con nuovi colleghi digitali, definisce confini e responsabilità, disinnesca il FOBO e misura il valore oltre le licenze software. È gestione del cambiamento, ma soprattutto è politica industriale su scala d’impresa.

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