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Quattro “pillar” per governare l’adozione dell’AI nelle aziende



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L’arrivo di ChatGPT ha accelerato l’adozione dell’AI negli uffici, generando opportunità ma anche timori legati a sicurezza, shadow AI, allucinazioni e mancanza di governance. Le aziende più efficaci lavorano su leadership, strumenti, formazione e champion interni, migliorando produttività e benessere. La sfida è integrare l’AI con consapevolezza

Pubblicato il 5 dic 2025

Antonio Pisante

fondatore e CEO Yellow Tech



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Quando, nel novembre 2022, è arrivato ChatGPT, l’intelligenza artificiale è uscita dai laboratori per atterrare sulle scrivanie di milioni di persone. Per la prima volta, un lavoratore “da computer” – l’impiegato amministrativo, il consulente, l’avvocato, l’HR, il project manager – poteva dialogare con un sistema capace di scrivere, sintetizzare, analizzare testi complessi usando solo il linguaggio naturale.

Ecco come, in modo concreto, le aziende stanno adottando l’AI; come sta cambiando la produttività individuale e come i lavoratori la stanno usando davvero.

Le grandi paure dell’adozione dell’AI

Nelle aziende italiane incontro spesso lo stesso paradosso: tutti percepiscono che l’AI può dare un vantaggio enorme, ma molti sono frenati da timori legittimi.

Le paure principali sono almeno quattro.

1. Sicurezza dei dati
I modelli di AI vengono allenati su enormi quantità di informazioni. Molti strumenti, di default, utilizzano le conversazioni per migliorare i modelli futuri. Questo, per un’azienda, significa una cosa molto chiara: non si possono condividere alla leggera dati sensibili o segreti industriali.

Di fronte a questo rischio, alcune aziende scelgono la via più semplice: bloccare tutto. Altre, più lungimiranti, si dicono che l’impatto su produttività e benessere è troppo grande per rinunciare e che la sfida non è evitare il rischio, ma governarlo.

2. La “shadow AI”
Il blocco totale, infatti, non funziona. Lo dimostra l’esperienza sul campo: se uno strumento è utile, le persone trovano comunque il modo di usarlo. Nasce così la “shadow AI”: dipendenti che utilizzano strumenti vietati (come la versione pubblica di ChatGPT) dai propri device personali, fuori da ogni controllo. Il risultato è paradossale: i rischi che si volevano evitare, in realtà, aumentano.

3. Allucinazioni e sovra-fiducia
L’AI non è infallibile. Può “allucinare”, cioè generare risposte sbagliate ma dette con tono molto sicuro. Il problema, però, non è solo tecnico: è culturale.
Quando manca una formazione di base su come funzionano questi strumenti, si oscilla tra due estremi: fiducia cieca (“se lo dice l’AI sarà giusto”) o rifiuto totale (“non mi fido a priori”). In entrambi i casi, si perdono i benefici reali.

4. Mancanza di un piano condiviso
Anche quando c’è entusiasmo, spesso è mal distribuito. A volte la spinta viene dalla leadership ma incontra molta resistenza nei livelli operativi; altre volte sono i team sul campo a sperimentare, mentre i vertici restano distanti e prudenti.
Senza un piano che coinvolga tutti i livelli, l’adozione si inceppa: si creano isole di innovazione, ma l’organizzazione nel suo insieme resta ferma.

Come le aziende stanno adottando l’AI: il framework dei 4 pillar

Da questi problemi nasce una domanda pratica: che cosa deve fare, concretamente, un’azienda che vuole adottare l’AI in modo responsabile ed efficace?

L’esperienza sul campo mostra che il percorso di adozione funziona quando si lavora, in modo coordinato, su quattro pillar.

1. Leadership: capire davvero la portata del cambiamento

Il primo passo è la leadership. Non basta “benedire” un progetto AI: i vertici aziendali devono comprendere l’impatto trasformativo di questa tecnologia nei prossimi 5-10 anni.

Questo significa prendersi il tempo per capire come funzionano i modelli, osservare la traiettoria con cui aumentano le capacità e diminuiscono i costi, e collegare tutto questo alla propria industry, ai propri processi, al proprio modo di competere sul mercato.

Con i leader si costruisce una strategia di breve e medio periodo: da dove si parte, quali aree si toccano per prime, quali rischi si vogliono evitare, quali metriche useremo per capire se stiamo creando valore. Senza questo ingaggio strategico, l’AI resta un progetto laterale, interessante ma mai davvero prioritario.

2. Governance: scegliere e regolare gli strumenti

Il secondo pillar è la governance: scegliere quali strumenti usare, come e da chi.

Qui il lavoro diventa molto operativo. Serve una mappatura delle attività che le persone svolgono nelle diverse funzioni, per capire dove l’AI può portare il maggiore incremento di produttività e quali processi, invece, trattano dati così sensibili da richiedere tutele particolari. Su questa base si valutano le diverse soluzioni disponibili, si selezionano gli strumenti più adatti e si assegnano alle persone che ne hanno davvero bisogno.

Una volta scelti, gli strumenti vanno regolati con policy chiare, semplici, comprensibili da tutti. Non bastano documenti lunghi: occorre indicare in modo molto pratico che cosa si può condividere e cosa no, quali strumenti sono autorizzati, come gestire le eccezioni, chi è responsabile delle scelte. Una buona AI policy riduce la shadow AI e trasmette un messaggio importante: l’AI non è un tabù, ma una risorsa da usare con consapevolezza.

3. Formazione a tutti i livelli: mani in pasta, non solo slide

Terzo pillar: mettere l’AI nelle mani di tutti i lavoratori da computer, non solo di pochi specialisti.

La ragione è duplice. Da un lato, questi strumenti sono trasversali: toccano pressoché ogni attività cognitiva, dalla scrittura di un report all’analisi di un contratto, dalla preparazione di una presentazione a una ricerca di mercato. Dall’altro, sono democratici: si usano con il linguaggio naturale, non richiedono competenze di programmazione e possono essere padroneggiati anche da chi non si è mai considerato “tecnico”.

Dare accesso, però, non basta. Serve una formazione su due livelli. Il primo è quello della comprensione di base: come ragiona un modello, perché può sbagliare, che differenza c’è tra i vari strumenti, quali sono i limiti strutturali. Il secondo è quello della pratica: sessioni in cui le persone lavorano sui propri casi reali, con i propri device, sperimentando come svolgere le attività di tutti i giorni in modo diverso e più produttivo.

La differenza la fa il taglio. Meno teoria e più “mani in pasta”, se possibile in presenza, con momenti di supporto individuale.

Non possiamo trattare “la tecnologia più potente e trasformativa dei nostri tempi” come un corso opzionale di aggiornamento…

4. Champion interni: portare l’AI nel cuore delle funzioni

Il quarto pillar è creare un gruppo di champion interni: persone IT e di diverse funzioni aziendali (finanza, marketing, operations, HR e così via) formate sull’AI più avanzata.

Il loro ruolo non è sostituirsi agli altri, ma diventare punti di riferimento. Sono loro a esplorare strumenti più sofisticati, come agenti, automazioni, modelli personalizzati, e a tradurre queste possibilità nel linguaggio della propria funzione. Conoscono bene i processi, parlano la lingua dei colleghi e li aiutano a capire dove l’AI può essere inserita senza creare frizioni e dove, invece, conviene andare con più cautela.

Quando questo gruppo esiste e funziona, l’impatto sull’adozione è enorme: l’AI smette di essere un tema “da tecnici” e diventa parte della cultura di innovazione dell’azienda.

L’AI e la produttività individuale: cosa cambia davvero nei lavori d’ufficio

Che cosa succede, invece, sul piano della singola persona?

Per molti lavoratori, il primo contatto con l’AI è stato spontaneo: provare a farsi aiutare a scrivere un testo, a riassumere un documento lungo, a tradurre una mail, a preparare una presentazione più ordinata. È la punta dell’iceberg, il primo uso intuitivo di uno strumento che in realtà può accompagnare gran parte delle attività quotidiane.

Quando la formazione è fatta bene, il salto è più profondo. Non si chiede più all’AI di “fare al posto mio”, ma di diventare copilota. La persona resta al centro del processo, mantiene il controllo delle decisioni, ma delega le parti più ripetitive: la prima bozza di un testo, una serie di alternative da cui partire, il controllo di coerenza di un documento, la preparazione di una base per un’analisi o per una presentazione.

Il tempo liberato può essere usato per ciò che conta davvero: decidere, relazionarsi con colleghi e clienti, pensare in modo creativo, coordinare i progetti.

Nelle realtà che lavorano seriamente sui quattro pillar descritti, l’effetto è duplice: da un lato aumenta la produttività, perché molti task vengono svolti meglio e più in fretta; dall’altro cresce il benessere, perché diminuisce il peso del lavoro ripetitivo e aumenta la sensazione di padroneggiare il proprio tempo. Tutto questo, però, accade solo quando l’uso dell’AI è riconosciuto, guidato e misurato.

Se l’azienda blocca e le persone si spostano nella shadow AI, la produttività può migliorare per il singolo, ma al prezzo di maggior rischio e totale mancanza di visione d’insieme.

Come i lavoratori la stanno usando: tra sperimentazione dal basso e governo dall’alto

L’adozione dell’AI non può essere lasciata al caso. HR, IT e leadership devono lavorare insieme. Le risorse umane hanno il compito di collegare l’AI al benessere, allo sviluppo delle competenze e ai percorsi di carriera delle persone. L’IT deve garantire che gli strumenti siano sicuri, aggiornati, coerenti con le policy aziendali. La leadership deve dare priorità, visione e risorse, spiegando perché l’AI non è una moda ma una leva strutturale di competitività.

Un tassello spesso sottovalutato è la misurazione. Se non misuriamo come cambiano competenze e pratiche nel tempo, è come correre al buio. Monitorare l’evoluzione delle competenze AI permette di capire chi ha bisogno di cosa, dove l’adozione sta funzionando davvero, quali squadre possono diventare esempio per le altre, quali interventi di formazione vanno rafforzati o ripensati.

La vera scelta per le aziende italiane

Alla fine, la domanda non è se l’AI entrerà nelle aziende italiane. È come.

Possiamo scegliere la strada del divieto, che alimenta la shadow AI e rallenta la competitività.
Oppure possiamo scegliere una strada più impegnativa ma ben più promettente: governare l’adozione, partendo dalla leadership, costruendo una buona governance, formando tutti e valorizzando champion interni.

L’AI ha aperto la possibilità, forse unica nella nostra vita professionale, di aumentare significativamente la produttività individuale di milioni di lavoratori. Sta alle imprese e ai loro leader decidere se trasformare questa possibilità in valore reale, per le persone e per il sistema Paese, o lasciarla evaporare tra paure, improvvisazione e divieti.

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