L’intelligenza artificiale sta ridisegnando i confini del lavoro nei servizi professionali. La trasformazione non è omogenea: alcuni modelli organizzativi e consulenziali si stanno rafforzando grazie all’uso dei dati e degli algoritmi, altri invece rischiano di essere sostituiti da soluzioni automatizzate. Lo ha spiegato Fabio Moioli, leadership & AI advisor di Spencer Stuart, in un intervento dedicato all’impatto dell’AI sulle organizzazioni ospitato dalla ManageEngine UserConf ’25, durante il quale ha descritto come l’evoluzione tecnologica stia dividendo il settore dei servizi tra vincitori e sconfitti.
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AI nei professional services: una rivoluzione a geometria variabile
Moioli invita a superare le letture superficiali secondo cui l’intelligenza artificiale distruggerà indiscriminatamente le professioni intellettuali. La realtà, sottolinea, è più complessa: «Dipende dal tipo di servizio e dai dati su cui si fonda. L’AI può essere una minaccia o un’enorme opportunità, a seconda del livello di conoscenza proprietaria che un’organizzazione possiede».
L’AI nei professional services non produce quindi un effetto uniforme, ma genera una polarizzazione tra modelli che vengono potenziati dalla tecnologia e modelli che invece ne risultano disintermediati. Le imprese che basano il proprio valore su relazioni, esperienza e dati non accessibili al pubblico tendono a rafforzarsi. Quelle che lavorano su informazioni standardizzate o replicabili vedono invece eroso il proprio vantaggio competitivo.
Il valore della conoscenza proprietaria
L’esempio più emblematico è quello dell’executive search, settore di cui Moioli ha un’esperienza diretta. Agenzie di ricerca e selezione che operano su dati confidenziali — come la retribuzione di un CEO, le sue motivazioni personali, il background culturale o le preferenze di carriera — mantengono un vantaggio incolmabile. «Un’intelligenza artificiale, per quanto evoluta, non può accedere a queste informazioni, perché sono private e basate su relazioni di fiducia» spiega.
In questi casi, l’AI non sostituisce il lavoro umano ma lo potenzia, aumentando la capacità analitica, la velocità di ricerca e la precisione nella valutazione dei profili. La componente relazionale e la capacità di interpretare le sfumature umane restano invece centrali. L’AI diventa uno strumento per migliorare la qualità del lavoro, non per eliminarlo.
Moioli estende il ragionamento anche agli studi legali specializzati in litigation o M&A, che lavorano su dossier riservati e decisioni ad alto contenuto fiduciario. In questi ambiti, i professionisti basano la loro efficacia su informazioni proprietarie e sul capitale relazionale con i clienti. La tecnologia può aiutarli ad analizzare i documenti o a ridurre i tempi di preparazione, ma non sostituisce la valutazione strategica e la negoziazione umana.
Quando l’automazione diventa minaccia
Il quadro cambia radicalmente per i settori che fondano la propria attività su conoscenze pubbliche o su processi standardizzabili. Moioli cita il caso del recruiting massivo, della consulenza legale di base o dei servizi fiscali che si limitano a interpretare normative pubbliche. In queste aree, le piattaforme di AI generativa sono in grado di elaborare enormi volumi di informazioni disponibili online e fornire risposte sempre più precise, riducendo il margine d’intervento umano.
«Chi basa il proprio valore su dati pubblici è esposto a un rischio altissimo di automazione» avverte. Non si tratta solo di efficienza: il rischio è quello della commoditizzazione del servizio, in cui la qualità percepita dal cliente non giustifica più un differenziale di prezzo.
C’è così uno spartiacque tra chi a trasformare l’AI in motore d’innovazione e chi la subisce. I professionisti che non possiedono dati propri o competenze distintive rischiano di essere sostituiti da sistemi più rapidi e meno costosi, capaci di fornire risultati analoghi senza intervento umano.
Dall’automazione alla consulenza aumentata
Nei casi virtuosi, l’AI non cancella il lavoro umano ma lo aumenta. Moioli parla di enablement, non di sostituzione. Gli studi legali o consulenziali che sanno integrare la tecnologia nei propri processi ottengono un miglioramento misurabile della produttività e dell’accuratezza, mantenendo intatta la componente strategica.
Questo approccio si basa sulla consapevolezza che l’intelligenza artificiale non è una risorsa autonoma, ma uno strumento al servizio dell’esperienza. Un avvocato che usa sistemi di analisi predittiva per simulare scenari di contenzioso, o un consulente che sfrutta modelli di machine learning per valutare alternative d’investimento, amplifica la propria capacità decisionale. L’AI diventa una leva di consulenza aumentata, che libera tempo dalle attività ripetitive e consente di concentrarsi su compiti ad alto valore aggiunto.
Il confine tra automazione e intelligenza relazionale è sottile, ma decisivo. L’AI può redigere un documento standard, ma non può interpretare il contesto emotivo di una trattativa o leggere le dinamiche di potere all’interno di un’organizzazione. Queste capacità, legate all’esperienza e alla sensibilità, restano dominio umano.
La fiducia come capitale competitivo
Nei servizi professionali, la fiducia rappresenta la vera valuta di scambio. Moioli sottolinea come anche le tecnologie più sofisticate non possano generarla autonomamente. «L’AI può essere abilitante, ma la relazione di fiducia resta insostituibile» afferma.
Il valore dei professionisti, soprattutto in settori come la consulenza direzionale, la gestione patrimoniale o l’executive search, deriva dalla loro capacità di interpretare bisogni non espliciti, di costruire confidenzialità e di garantire discrezione. L’intelligenza artificiale può rafforzare questa fiducia se viene utilizzata in modo trasparente, ma può comprometterla se il cliente percepisce opacità o eccessiva dipendenza dai sistemi automatizzati.
La sfida è quindi mantenere un equilibrio tra l’uso dei dati e il rispetto della dimensione umana. L’affidabilità non nasce solo dalla precisione dell’algoritmo, ma anche dalla chiarezza con cui vengono comunicate le sue funzioni e i suoi limiti.
Dove la specializzazione fa la differenza
Le realtà che prosperano nell’era dell’AI sono quelle capaci di specializzarsi verticalmente e costruire dataset proprietari. Moioli descrive questa tendenza come la chiave per distinguersi in un mercato dove la tecnologia è ormai accessibile a tutti. Le imprese che possiedono dati esclusivi – raccolti attraverso anni di esperienza, network e progetti – possono addestrare modelli di intelligenza artificiale personalizzati, non replicabili dai competitor.
In questo modo, l’AI diventa una forza moltiplicatrice di competenze, non un sostituto del capitale umano. L’adozione di sistemi proprietari consente di mantenere controllo, sicurezza e valore aggiunto, evitando che la tecnologia trasformi il servizio in un bene indistinto.
Il lavoro distintivo nell’era dell’AI
La riflessione di Moioli si chiude con una distinzione che sintetizza la traiettoria evolutiva del settore. Non esiste una contrapposizione netta tra lavoro umano e automazione, ma tra lavoro generico e lavoro distintivo. L’intelligenza artificiale penalizza la ripetizione e premia la creatività, la capacità interpretativa e il pensiero critico.
Le professioni che fondano il proprio valore su conoscenza specifica, empatia e comprensione dei contesti continueranno a prosperare, integrate da strumenti digitali sempre più evoluti. Quelle che si limitano a riprodurre procedure standard o a rielaborare informazioni pubbliche saranno progressivamente sostituite da algoritmi.
L’AI nei professional services non cancella dunque il ruolo umano, ma ne ridefinisce i confini. Il futuro dei servizi professionali si gioca sulla capacità di coniugare intelligenza dei dati e intelligenza sociale, unendo la potenza dell’elaborazione automatica alla sensibilità del giudizio umano. È in questo equilibrio che si decide chi, tra gli attori del settore, riuscirà a prosperare e chi verrà superato dalla propria stessa efficienza.






